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L’ipoacusia aumenta di 3 volte il rischio di demenza

Ipoacusia e demenza sono due patologie che in diversa misura interessano una larga fetta della popolazione generale. Il legame fra questi due deficit è quindi un tema di grande interesse per la clinica e per le strategie di prevenzione. Recenti studi ci dicono che l’ipoacusia aumenta di 3 volte il rischio di demenza e, a sua volta, il deficit cognitivo in 3 casi su 4 si accompagna a un deficit uditivo.

I dati sono stati presentati a Milano nel rapporto “Il cervello in ascolto – Lo stretto intreccio tra udito e abilità cognitive”, promosso da Amplifon. Tra udito e cervello sembra esserci – ha spiegato Andrea Peracino, presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano – un legame ‘a due corsie’: da un lato i processi cognitivi incidono sul modo in cui le persone sentono, dall’altro gli stimoli sonori attivano la corteccia cerebrale a tutto campo. Si tratta di un vero e proprio intreccio, che si manifesta anche quando si riscontra un deficit: un calo uditivo può infatti ridurre il volume della corteccia cerebrale, determinando cambiamenti strutturali e funzionali nel cervello; mentre il declino cognitivo può peggiorare le capacità di ascolto e di comprensione delle parole, favorendo la comparsa dell’ipoacusia.”

Le tecniche di indagine oggi disponibili hanno permesso di verificare cosa succede a livello cerebrale quando cala l’udito.

“Il deficit uditivo determina una deafferentazione sensoriale della corteccia cerebrale uditiva – afferma Camillo Marra docente di neurologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – e questo determina una riduzione del volume di queste zone corticali e una diminuzione del numero delle diramazioni che sono necessarie per la comunicazione tra cellule nervose e per il normale svolgimento delle funzioni di ascolto e comprensione. A conferma di ciò, recenti studi di neuroimaging hanno svelato come le persone con un calo dell’udito presentino una riduzione nello spessore dei fasci di sostanza bianca nella zona uditiva, cioè di quei fasci nervosi che presiedono al collegamento e all’interazione delle cellule nervose tra loro. Queste alterazioni uditive e del sistema nervoso centrale richiedono l’attivazione di molti meccanismi compensatori cerebrali, che impattano pesantemente sull’impegno cognitivo necessario all’ascolto, affaticando il cervello e rendendolo meno efficiente per lo svolgimento delle altre funzioni cerebrali.”

 

Si determina quindi una sorta di circolo vizioso tra la perdita di capacità uditive che affatica il cervello e la perdità di funzionalità del cervello che penalizza anche l’udito. Per questo un intervento che riduca l’evoluzione dell’ipoacusia può avere effetti positivi anche sull’inicidenza della demenza.

“Questi dati – conferma Gaetano Paludetti, direttore dell’Istituto di Otorinolaringoiatria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma –  evidenziano la necessità di un intervento tempestivo: gli ultimi studi, infatti, dimostrano come la giusta amplificazione acustica si associ a un declino cognitivo più lento in un arco di 25 anni, permettendo di mantenere una buona funzionalità cerebrale. Si stima, dunque, che rallentare di un solo anno l’evoluzione dell’ipoacusia possa portare a una riduzione del 10% del tasso di prevalenza della demenza nella popolazione generale”.

Figure tratte da “Il cervello in ascolto – Consensus Paper 2017”

Alessandro Visca
Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.