Alzheimer, l’herpes virus può essere una causa frequente della malattia?
L’infezione da herpes virus potrebbe essere una delle cause più frequenti del morbo di Alzheimer. Lo sostiene Ruth F. Itzhaki, professoressa emerita all’Università di Manchester, cheha iniziato quasi trent’anni fa a studiare un possibile legame tra herpes virus e Alzheimer.
Sulla base di una revisione di studi recenti, pubblicata sulla rivista Frontiers in Aging Neuroscience Itzhaki afferma che ci sono gli elementi per parlare di una relazione causale tra la presenza del virus e la malattia di Alzheimer e si chiede se non sia il caso di prendere in considerazione per i soggetti più a rischio una terapia preventiva con antiretrovirali, da iniziare nella mezza età.
L’infezione da HSV-1, secondo recenti stime dell’OMS colpisce i due terzi della popolazione mondiale, solo raramente con gravi conseguenze. Il virus può arrivare nella zona cerebrale e rimanere allo stato latente, può essere riattivato da eventi come l’immunosoppressione, infezioni periferiche e stati infiammatori.
È stato dimostrato, in colture cellulari, che il virus HSV1 favorisce un accumulo anomalo di proteina tau e quindi la formazione delle placche amilodali tipiche dell’Alzheimer. Inoltre, la ricercatrice mette in relazione la presenza del virus con un fattore genetico (allele APOE-ε4) associato al morbo di Alzheimer.
“La nostra teoria – spiega Itzhaki – è che nei portatori di APOE-ε4 la riattivazione del virus HSV1 è più frequente o più dannosa nelle cellule cerebrali infettate dal virus. La conseguenza è un accumulo di danni, che culminano nello sviluppo dell’Alzheimer”.
Gli studi su herpes virus e deterioramento cognitivo
Itzhaki riconsidera tre studi sulla popolazione di Taiwan, dove è disponibile un database del servizio sanitario nazionale che copre il 99% della popolazione.
Due studi hanno verificato la relazione tra il virus della varicella (herpes zoster) e il deterioramento cognitivo a lungo termine. Il primo è stato condotto su un gruppo di 846 pazienti (età media 62 anni) a cui è stato diagnosticato herpes zoster ophthalmicus e che hanno sviluppato la demenza nell’arco di 5 anni. Il gruppo infettato dal virus ha mostrato una probabilità maggiore di deterioramento cognitivo, rispetto a un gruppo di controllo immune dal virus (4,6 contro 1,65%). Un secondo studio, su un gruppo molto più ampio di persone (39.205), ha mostrato che chi aveva contratto il virus herpes zoster aveva una più alta probabilità di andare incontro a demenza (HR1.11) rispetto ai soggetti immuni. Inoltre, in chi era stato trattato con farmaci antivirali l’incidenza della demenza era circa la metà rispetto a quella delle persone non trattate (HR aggiustato 0,55, IC 95% 0,40-0,77, P < .0001) .
Il terzo studio ha esaminato 8.362 pazienti di età pari o superiore a 50 anni a cui erano state recentemente diagnosticate infezioni da HSV, confrontato con un gruppo di controllo di 25.086 persone esenti dal virus. Il rischio di sviluppare una forma di demenza nel gruppo HSV durante un periodo di 10 anni è stato 2,56 volte maggiore rispetto al gruppo di controllo (IC 95%, 2,351 – 2,795; P <0.001).
Va precisato che questi studi hanno alcuni limiti, ad esempio vengono considerate solo gravi infezioni da herpes virus e non quelle più comuni, come l’herpes labiale. Altri commentatori sottolineano che la maggiore incidenza di demenza nelle persone non trattate con antiretrovirali può essere messa in relazione semplicemente a una minore cura della salute in questi soggetti. Inoltre, in questi studi si parla di demenza in generale e non il morbo di Alzheimer in particolare.
Nonostante questi limiti Itzhaki si dice convinta che sia arrivato il momento di testare se il trattamento antivirale possa prevenire il deterioramento cognitivo. Questo approccio avrebbe maggiori probabilità di successo se fosse iniziato prima della mezza età, anche per un periodo relativamente breve.
La ricercatrice fa anche un calcolo che riguarda la popolazione inglese. Nel Regno Unito la percentuale di sieropositivi per HSV1 tra i 30 e i 40 anni è stimata fino al 70% della popolazione, mentre i portatori dell’allele APOE-ε4 sono circa il 25%. Quindi, nel complesso, solo il 18% circa delle persone appartenenti a quella fascia di età sarebbe a rischio maggiore e potrebbe beneficiare di un trattamento antivirale.