Le nuove linee guida ESC/ESH cambiano l’approccio al paziente iperteso
Le Linee guida ESC/ESH per il controllo farmacologico dell’ipertensione hanno introdotto alcune importanti novità rispetto al passato e si discostano in parte da quelle statunitensi dell’ACC/AHA. Abbiamo chiesto a Giuseppe Mancia, Professore emerito dell’Università Milano-Bicocca, Presidente della Fondazione della European Society of Hypertension e Co-chairman della Task Force che ha elaborato le linee guida, d’illustrarci come sono nate le nuove raccomandazioni.
Professor Mancia, ci può riassumere le novità di queste nuove guide europee sull’ipertensione pubblicate dall’ESC/ESH?
Una prima importante novità riguarda l’approccio diagnostico, perché nelle nuove linee guida si raccomanda con maggior forza la misurazione della pressione al di fuori dell’ambiente medico, cioè con dispositivi automatici sulle 24 ore o con automisurazione a domicilio, procedure che in precedenza erano considerate importanti solo per diagnosticare alcune condizioni specifiche, come l’ipertensione da camice bianco, l’ipertensione mascherata o l’ipertensione resistente. Ora invece si ritiene che siano utili per confermare la diagnosi d’ipertensione nella maggioranza dei pazienti perché aggiungono i valori della vita quotidiana all’incremento di pressione temporaneo verificato dal medico.
Tutto questo però comporta una complessità diagnostica maggiore. Ciò è giustificato dall’evidenza scientifica disponibile?
In effetti, alcuni studi fondamentali non sono mai stati fatti. Per esempio, come abbiamo sottolineato anche nel nostro documento, non è mai stato indagato su un’ampia popolazione di pazienti se la terapia guidata dalla pressione delle 24 ore o domiciliare comporti una migliore protezione per il paziente rispetto alla misurazione della pressione clinica classica; la ragione è da ricondurre alla complessità e ai costi di uno studio del genere. Vi è però sufficiente evidenza che associando alla pressione clinica la pressione ottenuta al di fuori dell’ambiente medico si migliora la quantificazione del rischio del paziente di andare incontro alle complicanze dell’ipertensione, e questo è importante
E sul fronte della terapia?
La novità più importante, è che le raccomandazioni estendono la terapia farmacologica a categorie di pazienti nelle quali i farmaci erano prima considerati di dubbia utilità, per esempio i pazienti con ipertensione lieve-moderata a rischio cardiovascolare basso/moderato, in cui in precedenza i farmaci erano di impiego incerto perché l’evidenza non era così solida a riguardo.
Possiamo scendere un po’ nel dettaglio?
Certamente. La categoria di cui sopra è quella dei soggetti con ipertensione di grado 1, cioè con pressione sistolica tra 140 e 159 mmHg e con probabilità di un evento patologico cardiovascolare inferiore al 10 per cento in 10 anni. In questi numerosi pazienti, l’evidenza che un abbassamento della pressione riducesse gli eventi era incerta. Inoltre, i farmaco-economisti insistevano – a dire il vero, insistono tutt’ora – sul fatto che il trattamento andrebbe limitato ai soggetti ad alto rischio, perché nei soggetti a basso rischio, che per definizione hanno meno eventi, il numero di eventi evitati dalla terapia non può che essere limitato. Ora però sappiamo con certezza che in un individuo a basso rischio che ha, diciamo, 144 mmHg di pressione sistolica, l’effetto protettivo di una riduzione pressoria è evidente. E poi che nei soggetti in cui il trattamento viene ritardato la terapia non è più in grado di ricondurre il rischio alla normalità, cioè il rischio residuo rimane alto. Ciò probabilmente si verifica perché i danni di una esposizione prolungata all’ipertensione, a un certo punto, diventano almeno in parte irreversibili. Ciò sostiene con forza la necessità di un intervento terapeutico precoce non tardivo.
E per le altre categorie?
Un discorso analogo al precedente riguarda i pazienti di grado 1 anziani: storicamente, i trial che hanno dimostrato i benefici della terapia antipertensiva nell’anziano iperteso si sono rivolti a pazienti anziani con più di 160 mmHg di pressione sistolica, per cui la fascia tra 140 e 159 mmHg è sempre rimasta una zona grigia. Ora, invece, sono disponibili dati che dimostrano come anche in questi pazienti ridurre la pressione riduce il rischio di eventi cardiovascolari anche letali. C’è poi una terza categoria, quella dei pazienti con la cosiddetta pressione normale alta, cioè con valori sistolici tra 130 e 139: in passato si riteneva che il trattamento farmacologico non fosse indicato per mancanza di evidenze. Ora invece si è visto che in un sottogruppo, quello dei soggetti che hanno avuto eventi cardiovascolari, come ictus o infarto, ridurre la pressione sotto i 130 mmHg ha un effetto protettivo. In questi pazienti, dunque, si consiglia d’iniziare la terapia anche quando la pressione sistolica è sotto i 140 mmHg, mettendo in atto, in questo caso, un intervento di prevenzione secondaria.
E qui c’è una differenza rispetto alle linee guida statunitensi…
Sì, una differenza notevole… perché le linee guida statunitensi raccomandano anch’esse di trattare un sottogruppo con pressione normale alta, ma si riferiscono a individui che, secondo la classificazione Framingham, hanno un rischio superiore al 10 per cento, utilizzando come evidenza lo studio SPRINT. Si tratta di un numero assai più alto di quello previsto dalle linee guida europee: i soggetti con più di 65 anni, per esempio hanno in maggioranza un rischio superiore al 10 per cento soltanto per il fattore età; la posizione europea è dunque più conservatrice anche perché la sua posizione sullo studio SPRINT è critica.
C’è poi la questione di quando si consiglia di scendere sotto i 130 mmHg, che cosa dicono le raccomandazioni?
In precedenza, si raccomandava di discendere sotto i 140 mmHg di pressione sistolica nella popolazione ipertesa generale e sotto i 150 ma sopra i 140 mmHg negli anziani. Ora invece si propende per un atteggiamento più aggressivo, cioè di scendere sotto i 130 mmHg in generale e sotto i 140, ma sopra i 130mmHg, negli anziani: questa è un’altra differenza con le linee guida americane, che raccomandano di scendere sotto i 130 mmHg in tutti i pazienti, inclusi gli ottogenari e nonagenari; inoltre gli europei consigliano di scendere sotto i 140 ma di rimanere sopra i 130mmHg anche nei pazienti con malattia renale cronica, perché ai livelli pressori più bassi l’evidenza di beneficio è scarsa o assente, mentre è convincente quella di danno renale da ridotta perfusione
Tra europei e statunitensi esiste anche una differenza nel modo di formulare le raccomandazioni sugli obiettivi pressori, non è così?
Certamente, perché noi europei affianchiamo alle raccomandazioni una serie di considerazioni; la prima e più importante è che scendere sotto i 140 mmHg è già di per sé molto difficile, visto che nella maggioranza dei trial clinici la pressione sistolica è rimasta sotto trattamento, era sopra o appena sotto i 140 mmHg; la seconda considerazione è che, anche se scendendo sotto 130 mmHg aumenta il beneficio, il vantaggio ulteriore è piuttosto piccolo, perché la curva del rapporto tra eventi e pressione si appiattisce ai livelli di pressione più bassi. In altre parole se si scende da 150 a 140mmHg si evitano molti più eventi patologici che se si scende da 140 a 130. Si fa quindi molta più fatica terapeutica per un beneficio più limitato; la terza considerazione è che in alcuni gruppi, come i pazienti con nefropatia cronica ma anche i diabetici, l’evidenza di un ulteriore beneficio sotto i 130mmHg non è così forte; la quarta considerazione, infine, è che numerosi studi dimostrano che tanto maggiore è la riduzione terapeutica della pressione tanto più cresce, esponenzialmente, il rischio di gravi effetti collaterali con conseguente interruzione della terapia: i pazienti, cioè, smettono di prendere il farmaco, e questo comporta una risalita spiccata del rischio. La conclusione è che pur optando per un approccio più aggressivo nei confronti del target pressorio, occorre bilanciare i benefici con i rischi. Mentre per gli americani tutti i pazienti dovrebbero far scendere la pressione sistolica tutti sotto i 130 mmHg, per gli europei scendere sotto i 140 mmHg non è certo un fallimento, anzi… se poi il paziente non è anziano e sopporta bene il trattamento si può senz’altro andare oltre.
Per la prima volta le linee guida raccomandano anche di non scendere sotto i 120/70 nella popolazione anziana, qual è il razionale di questa scelta?
È una raccomandazione di sicurezza: al di sotto di questi limiti pressori si va incontro a un maggior rischio di un incremento di eventi patologici (la famosa curva J) nonché di ipotensione posturale con cadute e relativi traumi, anche gravi. Nell’anziano, in particolare, cadute da ipotensioni con cause terapeutiche può causare fratture e altre conseguenze drammatiche.
Veniamo ora alla questione fondamentale: come trattare?
In tema di trattamento, le linee guida ESC/ESH introducono novità importanti. Fermo restando che le basi della terapia sono sempre le stesse cinque classi di farmaci – diuretici, betabloccanti, calcio-antagonisti, sartani e ACE-inibitori – la task force dell’ESC/ESH ha cercato di dare risposta a una questione fondamentale: considerato che abbiamo a disposizione diversi farmaci efficaci, com’è possibile che, nel mondo, il controllo dell’ipertensione sia ancora fermo? Secondo le ultime stime, infatti, non supera il 13-15 per cento: è un po’ più elevato per i Paesi industrializzati, ma ancor più basso per quelli in via di sviluppo. La risposta è che forse sono state sempre raccomandate strategie sbagliate, e cioè iniziare e insistere con una monoterapia, passare da una monoterapia a un’altra, oppure aggiungere ulteriori farmaci alla monoterapia iniziale in caso di mancato controllo pressorio. Gli approcci basati sulla monoterapia iniziale sono però gravati sia da una bassissima aderenza alla prescrizione terapeutica da parte del paziente sia dalla cosiddetta inerzia terapeutica: quest‘ultima è dovuta al fatto che i pazienti che iniziano con una terapia tendono a mantenerla anche quando l’ipertensione non risulta essere controllata.
Quindi è meglio iniziare subito con due farmaci, come raccomandano le nuove linee guida europee?
Sì: le evidenze disponibili mostrano che cominciare con due farmaci consente di evitare il fenomeno dell’inerzia e di aumentare l’aderenza, forse perché i due farmaci iniziali controllano la pressione più rapidamente, e ciò motiva il paziente ad assumere la terapia anche in seguito: si può cioè immaginare che il successo immediato abbia riflessi psicologici positivi, anche in termini di fiducia nel medico; in ogni caso è stato osservato che chi inizia con due farmaci ha più probabilità di un controllo pressorio a lungo termine e meno rischi di eventi patologici. Chiaramente vi sono però anche casi in cui la monoterapia deve rappresentare il primo passo. Nei casi di pressione normale alta candidati alla terapia, per esempio, basta un solo farmaco per arrivare al target così come nei soggetti anziani, è desiderabile, per evitare eccessive cadute pressorie il procedere cautamente.
Intervista a cura di Folco Claudi