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tumore mammella

Carcinoma alla mammella. L’impatto della contraccezione ormonale combinata in donne a rischio per familiarità

Giovanni Grandi, Martina Caroli, Cristina Guidi, Federica Anceschi, Fabio Facchinetti

Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena
Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Materno-Infantili e dell’Adulto
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

• Lo studio analizza un ambito ancora poco esplorato ovvero la potenziale correlazione tra assunzione di contraccettivi ormonali combinati (CHC) e rischio di tumore al seno in donne con predisposizione genetica o familiare.
• Nel complesso, emerge che l’uso di CHC non si associa con un aumento dell’incidenza di carcinoma mammario, indipendentemente dalla durata di utilizzo, e dunque l’impiego della “pillola” contraccettiva sarebbe sicuro anche in questa classe di pazienti che tendenzialmente temono di più i possibili effetti negativi delle terapie ormonali.

Il carcinoma mammario (CM) è il tumore più diagnosticato nella donna, in cui circa un tumore maligno su 3 è un CM. Considerando la frequenza nelle varie fasce di età, i CM rappresentano il tumore più frequentemente diagnosticato tra le donne sia nella fascia di età 0-49 anni (41 per cento), sia nella classe di età 50-69 anni (35 per cento), sia in quella più anziana, maggiore di 70 anni (22 per cento). È inoltre la prima causa di morte oncologica nelle diverse età della vita, rappresentandone il 30 per cento prima dei 50 anni, il 22 per cento tra i 50 e i 69 anni, il 15 per cento dopo i 70 anni. Si sta osservando una continua tendenza alla diminuzione della mortalità per CM negli ultimi anni (circa 2,2 per cento/anno) attribuibile alla maggiore diffusione di programmi di diagnosi precoce e quindi all’anticipazione diagnostica e anche ai progressi terapeutici. La sopravvivenza a 5 anni in donne con CM oggi in Italia è pari all’87 per cento (1).

Il rischio di CM aumenta con l’aumentare dell’età e questa correlazione potrebbe essere legata al continuo e progressivo stimolo proliferativo endocrino che subisce l’epitelio mammario nel corso degli anni, associato al progressivo danneggiamento del DNA e all’accumularsi di alterazioni epigenetiche con modificazioni dell’equilibrio di espressione tra oncogeni e oncosoppressori. Sono stati identificati diversi fattori di rischio per CM tra cui: il menarca precoce e la menopausa tardiva, la nulliparità, il mancato allattamento, l’elevato consumo di alcol, di grassi animali e di fibre vegetali, l’obesità, il diabete, l’ipertensione arteriosa, la pregressa radioterapia sul torace e la familiarità.

Anche se la maggior parte dei carcinomi mammari sono forme sporadiche, il 7 per cento risulta essere legato a fattori ereditari, il 25 per cento determinato dalla mutazione di due geni: BRCA1 e BRCA2. In queste donne il rischio di ammalarsi di CM nel corso della vita è pari a 65 per cento nelle BRCA1 e al 40 per cento nelle BRCA2 (2).

I geni BRCA1 e BRCA2 sono stati identificati nei primi anni Novanta, con i test genetici che sono diventati clinicamente disponibili nel 1996. I geni BRCA1 e BRCA2 sono localizzati rispettivamente sui cromosomi 17 e 13 e sono compatibili con la vita solo in eterozigosi. Entrambi questi geni sono piuttosto grandi e contengono almeno 20 esoni (regioni codificanti) che coprono circa 80.000 coppie di basi. I database internazionali definiscono centinaia di diverse mutazioni patogene. La maggior parte di queste mutazioni altera il quadro di lettura, con conseguente formazione di un codone di arresto prematuro che genera una proteina accorciata. Altre mutazioni, invece, possono interessare i siti di splicing ai confini degli esoni o coinvolgere alterazioni genomiche maggiori. Le semplici mutazioni missenso, dove c’è una sostituzione di una singola base, rappresentano le mutazioni patogenetiche meno frequenti (3). Nella popolazione generale, si stima che circa 1 su 500 è portatore di una mutazione in BRCA1 o BRCA2 (4). La mutazione BRCA si associa anche a un aumentato rischio di sviluppare il tumore dell’ovaio: in particolare, la BRCA1 ha circa il 45 per cento di rischio di sviluppare un tumore ovarico mentre la BRCA2 ha un rischio del 18 per cento nel corso di tutta la vita (5).

Correlazione tra terapia con CHC e carcinoma mammario

Attualmente nei Paesi sviluppati, i contraccettivi ormonali combinati (CHC) sono i metodi di contraccezione più utilizzati: ne fanno uso circa 29 milioni di donne. La “pillola” tradizionale è in generale composta da un ormone estrogeno e uno progestinico. Negli ultimi 60 anni, essa si è costantemente evoluta. Dopo i primi tentativi con il mestranolo, l’uso di etinil-estradiolo (EE) è divenuto predominante per decenni fino a pochi anni fa. Le dosi di EE all’inizio di 50 µg sono state gradualmente ridotte fino a 15 µg. Allo stesso tempo, numerose generazioni diverse di progestinici sono stati testati per avere prodotti che si adattino meglio alle esigenze individuali. In particolare si è partiti da progestinici simili al testosterone con proprietà androgeniche (i cosiddetti progestinici di prima generazione) per utilizzare sempre nuove molecole con proprietà androgeniche neutre o anche anti-androgeniche (6).

La sostituzione dell’EE con l’estradiolo, l’estrogeno naturalmente secreto dalle cellule della granulosa delle ovaie, è stato davvero difficile a causa del mancato raggiungimento di un livello soddisfacente di controllo del sanguinamento, ma si è reso possibile solo negli ultimi anni con l’introduzione di specifici regimi multifasici e progestinici con spiccato effetto di stabilizzazione dell’endometrio (7).

L’effetto dell’utilizzo dei CHC durante la vita riproduttiva di una donna e il loro conseguente rischio di carcinoma mammario è sempre stato un argomento di grande interesse e un’importante questione di discussione.

Dati sperimentali suggeriscono che gli estrogeni rivestono un ruolo centrale nello sviluppo del CM esercitando sulle cellule tumorali uno stimolo proliferativo, mentre l’azione del progestinico è molto più controversa. Infatti sembra che esso possa avere sia un’azione proliferativa che anti-proliferativa a seconda del fenotipo cellulare e del microambiente in cui esso agisce. Il CHC può esercitare effetti differenti a seconda dell’età e dello stato di sviluppo del tessuto mammario (8).

I numerosi studi che sono stati eseguiti per approfondire e spiegare se vi sia o meno una correlazione tra la CHC e il rischio di CM in donne senza rischio familiare non hanno attualmente trovato una risposta univoca. Esistono studi prospettici di coorte che dimostrano un aumentato rischio di CM in donne che hanno utilizzato il CHC per 5 o più anni rispetto a donne che non l’hanno utilizzato (8,9). In particolare, da un recente studio prospettico di coorte condotto in Danimarca che ha coinvolto donne tra i 15 e i 49 anni, è emerso che il rischio relativo (RR) aumenta lievemente, da 1,09 (95 per cento CI, 0,96- 1,23) in coloro che hanno utilizzato il CHC per meno di un anno, a 1,38 (95 per cento CI, 1,26-1,51) nelle donne che lo hanno utilizzato per più di 10 anni, circa un extra tumore mammario per ogni 7.700 donne che usano la pillola per un anno. Tale rischio sembrerebbe rimanere aumentato anche per i successivi 5 anni dopo la loro sospensione (9). Questi dati non risultano concordi con un altro ampio studio prospettico recentemente pubblicato che ha analizzato l’incidenza longitudinale di carcinomi (mammario, cervicale, colon-rettale, endometriale, ovarico, linfatico ed emopoietico) in donne che hanno assunto il CHC, che non ha trovato un aumento del rischio di CM, confermando invece l’importante effetto protettivo sul tumore dell’ovaio con un RR di 0,67 (95 per cento CI 0,50-0,89) (10).

Emerge inoltre, come ci sia una correlazione inversa tra l’età in cui si inizia ad assumere il CHC (sotto i 20 anni) e il rischio aumentato di CM (8). Infatti nel mondo occidentale l’età della prima gravidanza si è attualmente posticipata rispetto alla fine degli anni Settanta. Per questo motivo i CHC vengono assunti dalle donne in età sempre più precoce e sicuramente prima dell’instaurarsi della gravidanza che gioca un ruolo protettivo nei confronti del tessuto mammario, in quanto determina una differenziazione tissutale che sembra ridurre il rischio di carcinoma alla mammella (8).

Una metanalisi che ha analizzato 54 studi da 25 Paesi suggerisce inoltre, un effetto promotore da parte della terapia con CHC nei confronti delle lesioni mammarie presistenti. Tuttavia in molti studi emerge che poi la mortalità per CM in donne che hanno utilizzato il CHC sia equivalente o inferiore rispetto alle donne che non l’hanno assunto; probabilmente questo aspetto potrebbe essere correlato alla maggiore attenzione e aderenza allo screening mammografico da parte di questa popolazione considerata a maggior rischio (11,12).

Anche nelle pazienti portatrici della mutazione BRCA1 e 2 che hanno utilizzato il CHC esiste un lieve aumento del rischio di CM con un HR di 1,47 (95 per cento CI 1,16-1,87) (13), soprattutto se usato prima della prima gravidanza, sebbene questo dato non sia stato poi confermato (14). Tale rischio tuttavia, è ampiamente controbilanciato dalla riduzione dell’incidenza del tumore ovarico che è fortemente aumentato nella popolazione di donne con mutazione BRCA1 e 2; per cui l’utilizzo di CHC non viene assolutamente precluso a queste pazienti, soprattutto le BRCA1, in cui il rischio di tumore dell’ovaio è molto alto (8).

Molto controverso infine è l’effetto dell’uso dei CHC in donne con una semplice storia familiare di CM (familiari di primo grado) a causa della scarsità di studi presenti in letteratura, della carenza del loro significato statistico e della disomogeneità sia nelle popolazioni valutate, sia nella definizione di una storia familiare di CM (15,16).

Lo studio

Per questo motivo abbiamo recentemente condotto uno studio retrospettivo di coorte insieme agli oncologi del Centro per lo studio dei tumori eredo-familiari dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena diretto dalla dott.ssa Laura Cortesi, valutando le caratteristiche della vita riproduttiva di 2.527 cartelle cliniche di pazienti che avevano effettuato una valutazione oncologica fra maggio 2010 e gennaio 2016. Le donne senza storia familiare non sono state considerate (17).

In particolare abbiamo incluso le donne categorizzate secondo i criteri di Modena (Tabella 1). L’incidenza del CM in queste donne presente nel nostro database è stata poi confrontata con un’altra banca dati indipendente, il Registro dei tumori di Modena.


L’uso di CHC di ogni donna è stato attentamente valutato con specifici questionari. Tutti i nomi commerciali dei CHC utilizzati (pillole, anelli vaginali o cerotti) sono stati inseriti nel database. Per la parte estrogenica, è stata considerata la dose massima di EE utilizzata. Inoltre sono stati raccolti i diversi tipi di progestinici. Se una donna aveva utilizzato diversi tipi di progestinici, tutti sono stati considerati e inclusi nell’analisi finale.

Di queste donne, il 4,5 per cento è stato confermato portatore di mutazioni BRCA, il 72,2 per cento presentava un rischio elevato, mentre il 23,3 per cento era a rischio intermedio.

In tutta la popolazione, abbiamo osservato che il menarca tardivo dopo 12 anni (HR 0,71; 95 per cento CI 0,55-0,92; p =0,01) era un fattore protettivo per CM. Al contrario, la tarda età alla prima gravidanza (>30 anni) rappresentava un fattore di rischio (HR 1,66, 95 per cento CI 1,14-2,41, p =0,008).

Tra le donne valutate, 452/1.470 (30,7 per cento) non avevano mai usato la pillola, mentre le altre l’avevano usata per un periodo <5 anni (517/1.470, 35,2 per cento), tra 5 e 10 anni (294/1.470, 20,0 per cento) e per più di 10 anni (207/1.470, 14,1 per cento). Non abbiamo trovato alcuna caratteristica specifica dei tumori mammari (infiltrazione, recettore ormonale e stato HER2, esordio precoce, diagnosi multipla) nelle utilizzatrici di CHC (p >0,05).

Nel complesso, l’uso di CHC non è stato associato a un aumento del rischio di incidenza del CM (rischio cumulativo: mai usato 0,17, utilizzatrici 0,20, p =0,998), indipendentemente dalla durata d’uso.

In un modello di regressione di Cox con interazione dei diversi gruppi di rischio, i risultati sono stati confermati (Tabella 2) (riferimento: non utilizzatrici di CHC).

Le formulazioni esatte e la durata d’uso sono state chiaramente riferite da 543 donne (quindi aggiunto alle non utilizzatrici, l’analisi finale è stata eseguita su un totale di 995 soggetti). Solo 11/543 (2,0 per cento) donne avevano utilizzato un preparato con ≥50 µg di EE. I progestinici più usati erano il gestodene (GSD) (n =199), il desogestrel (DSG) (n =155) e il ciproterone acetato (n =112) (CPA). La durata media dell’uso di CHC era comparabile tra le diverse formulazioni (p =0,384).

La dose di EE non ha influenzato il rischio di CM (rischio cumulativo: 2,37, 95 per cento CI 0,53-10,1; non utilizzatrici 0,18, EE <20 µg 0,04, EE ≥20 µg 0,16, p =0,259).

Il rischio non differiva tra le pillole contenenti diversi progestinici (p =0,669).

Tuttavia, il rischio di CM tendeva a essere più alto, anche se non significativamente, nelle utilizzatrici di CHC contenenti LNG (rischio cumulativo: utilizzatrici di LNG 0,37 vs 0,17 di non utilizzatrici di pillola, p =0,748), mentre una tendenza verso un rischio ridotto è stata osservata nelle utilizzatrici di CHC contenenti DSG (rischio cumulativo: utilizzatrici DSG 0,09; p =0,333). La diminuzione è diventata significativa nelle utilizzatrici di CHC contenenti GSD (rischio cumulativo: utilizzatrici GSD 0,05; p =0,040) o CPA (rischio cumulativo: utilizzatrici CPA 0,01; p =0,036). Ciò che sembra emergere è quindi che il rischio sia più alto con i progestinici androgeni, molto più basso con progestinici androgenici più deboli e ancora più basso con i progestinici anti-androgeni. Il testosterone infatti è un riconosciuto fattore di rischio per il CM (18), e considerazioni simili sono state fatte in donne in postmenopausa senza storia familiare che utilizzano terapia ormonale sostitutiva, in cui l’uso di un progestinico androgeno sembrava aumentare il rischio di CM più che l’uso di un progestinico non androgenico (19). Il meccanismo proposto potrebbe dipendere dall’aumento delle SHBG (sex hormone binding protein) causato da EE che è potenzialmente protettivo per lo sviluppo del CM, che aumenta di più con progestinici anti-androgenici in associazione con EE (20).

Considerazioni conclusive

Il nostro studio dimostra quindi che l’uso di CHC non è associato a un aumento generale del rischio di CM in una popolazione con predisposizione genetica o familiare. Questo effetto non dipende dalla durata dell’uso della pillola. Il rischio è indipendente dalla dose di EE, sebbene nel nostro gruppo solo il 2 per cento delle donne avesse usato un preparato con ≥50 µg di EE. Alcune pillole contenenti progestinici comunemente usati, come GSD, DSG e CPA, si sono dimostrate anche associate a una tendenza, a volte significativa, verso un rischio ridotto di CM. Secondo i risultati di questo nostro studio (17), l’utilizzo di pillola sarebbe sicuro anche in questa classe di pazienti con una familiarità per CM che tendenzialmente temono di più i possibili effetti negativi delle terapie ormonali, e sono completamente in accordo con le linee guida dell’OMS del 2015 che non precludono in alcun modo l’assunzione di CHC nelle pazienti con familiarità per CM (21).

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  21. World Health Organization (WHO). Medical Eligibility Criteria for Contraceptive Use. Fifth Edition. Geneva, Switzerland:WHO; 2015.

 

Alessandro Visca
Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.