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Demenze senili, si potrà giocare d’anticipo?

Le diverse forme di demenza senile sono in costante crescita e costituiscono uno dei più importanti fattori di invalidità e peggioramento della qualità di vita nella popolazione anziana. Individuare con anticipo i segni dello sviluppo dell’Alzheimer o delle altre forme di demenza e disporre di strategie efficaci per prevenirle sono obiettivi prioritari della ricerca medica.

Nel corso di uno dei più importanti meeting internazionali del settore, l’Alzheimer’s Association International Conference (AAIC 2021), sono emersi nuovi dati su due filoni di studi tra i più promettenti, quello sull’individuazione di biomarker per la diagnosi di demenza, che consentirebbe di individuare la patologia con un semplice esame del sangue e con anni di anticipo, e quello che riguarda una possibile strategia preventiva basata sull’alimentazione.

Test per l’Alzheimer con l’esame del sangue: promesse e limiti

Michelle Mielke, professoressa di epidemiologia e neurologia presso la Mayo Clinic di Rochester, Minnesota (Usa) ha presentato all’AAIC 2021 i dati di una ricerca che riguarda la possibilità di utilizzare alcuni biomarker circolanti nel sangue per diagnosticare Alzheimer e altre forme di demenza.

da diversi anni sono stati individuati alcuni biomarker plasmatici associabili alla demenza, tra questi ci sono i peptidi di beta-amiloide 1-40 (Aβ 1-40) e 1-42 (Aβ 1-42), la proteina Tau  fosforilata, il neurofilamento leggero (NfL). Gli studi su questi biomarcatori secondo gli esperti porteranno presto alla messa a punto di test per la diagnosi della demenza attraverso un prelievo di sangue.

Tuttavia, lo studio presentato da Michelle Mielke dimostra che i biomarker possono essere influenzati da altre condizioni patologiche che potrebbero condizionare gli esiti dei test.

Spiega Mielke:

I biomarker per le demenze sembrano davvero promettenti. Ma sono stati testati principalmente in cliniche specializzate su pazienti selezionati e non nella popolazione generale.”

Mielke e colleghi della Mayo Clinic ha analizzato i dati di p-tau 181 e p-tau 217 di 1.329 pazienti della clinica con un’età media di 67 anni. Di questi, 1.161 erano cognitivamente sani, 153 avevano un lieve deterioramento cognitivo (MCI) e 15 avevano demenza. L’età media era di 67 anni, il 55% era di sesso maschile e il 26% aveva l’allele APOE e4, che si associa a un rischio maggiore di Alzheimer.

Dopo aggiustamento per età e sesso, c’erano livelli statisticamente elevati di entrambi i biomarcatori tra i pazienti che erano risultati positivi all’amiloide, tra i pazienti che avevano avuto un ictus o un infarto del miocardio e in presenza di malattia renale cronica (CKD). C’era anche una tendenza verso un aumento dei livelli di biomarcatori con l’aumento dell’indice di massa corporea. Con un’analisi più approfondita i ricercatori hanno verificato che la sensibilità dei test era fortemente influenzata da un pregresso ictus o infarto del miocardio e in presenza di malattia renale cronica (CKD). Questo significa che la condizione clinica e le comorbilità dei soggetti può cambiare il significato dei test. Secondo Cristopher Weber, direttore Global Science Initiatives dell’Alzheimer’s Association:

I biomarker individuabili con un esame del sangue possono rilevare i segni distintivi dell’Alzheimer a volte fino a dieci anni prima che compaiano i sintomi. Ma abbiamo ancora molto da imparare su quando usarli esattamente e per quali soggetti sono indicati.”

I cambiamenti del metabolismo influenzano il rischio di demenza

Un altro studio presentato all’AAIC 2021 da Cornelia M. van Duijn,  professoressa di epidemiologia presso il Nuffield Department of Population Health, Università di Oxford (UK) ha scoperto l’associazione tra alcuni gruppi (cluster) di metaboliti circolanti nel sangue e il rischio di sviluppare una demenza. In particolare i ricercatori hanno individuato piccoli metaboliti delle lipoproteine ad alta densità (HDL) associati alla demenza vascolare, e un altro cluster che comprende corpi chetonici e citrato associato alla malattia di Alzheimer.

Secondo la professoressa van Duijn:

Questi metaboliti possono segnalare una demenza precoce e la patologia senile, inoltre potrebbero essere un obiettivo interessante per la prevenzione.”

I ricercatori hanno incluso nello studio 51.031 soggetti di età superiore ai 60 anni alla partenza dello studio selezionati dal database della UK Biobank. Di questi, 1.188 hanno sviluppato demenza durante un follow-up di circa 10 anni; 553 hanno avuto una diagnosi di morbo di Alzheimer e 298 di demenza vascolare.

I ricercatori hanno rilevato la presenza di 249 diversi metaboliti e hanno stimato il rischio di demenza associato a questi metaboliti, con un aggiustamento statistico per età, sesso, indice di massa corporea, etnia, fumo, alcol, grado di istruzione, assunzione farmaci metabolici e neuropsichiatrici e genotipi APOEe4.

Dei 249 metaboliti, 47 (19%) erano associati al rischio di demenza, dopo aggiustamento per i fattori confondenti.

L’aspetto più interessante di questa ricerca riguarda il cambiamento dei vari metaboliti coinvolti nel metabolismo energetico nel decennio che precede la diagnosi del morbo di Alzheimer. Questi cambiamenti includono un abbassamento dei livelli di aminoacidi a catena ramificata e acidi grassi omega-3 e un innalzamento dei livelli di livelli di glucosio, citrato, acetone, beta-idrossibutirrato e acetato. Un dato che secondo van Duijn conferma “una riduzione del metabolismo energetico del cervello nel corso degli anni”

Inoltre alti livelli di alcuni di questi metaboliti sono associati a un calo del peso corporeo prima dell’insorgenza della demenza, il che potrebbe spiegare la perdita di peso che spesso di osserva nei pazienti prima di sviluppare la malattia. Spiega van Duijn:

La nostra ipotesi è che il fegato stia bruciando le riserve di grasso dei pazienti per fornire carburante al cervello”.

I risultati hanno anche mostrato che i corpi chetonici aumentano con l’avanzare dell’età, il che può rappresentare il “meccanismo di compensazione” del cervello che invecchia per far fronte a una carenza di energia. Aggiunge van Duijn:

L’integrazione di corpi chetonici, aminoacidi a catena ramificata e acidi grassi omega-3 può aiutare a supportare la funzione cerebrale”.

Uno scenario da approfondire, che potrebbe fornire indicazioni preziose per una strategia di prevenzione delle demenze che parte dall’alimentazione per supportare le difficoltà create all’efficienza del cervello dai cambiamenti del metabolismo legati all’età.

Alessandro Visca
Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.