Le sfide dell’assistenza medica ai minori intersex e gender variant/3
Il tema della varianza di genere in età evolutiva è un ambito di studio e di intervento estremamente articolato e complesso, che sta attualmente emergendo sempre più all’interesse clinico. In questa sezione proponiamo una serie di contributi a cura del dottor Carlo Alfaro, pediatra e membro del consiglio direttivo della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza.
Vedi la prima parte dell’articolo: Identità sessuale e varianza di genere: definizioni e terminologia
Vedi la seconda parte dell’articolo: Superamento della visione patologica delle variazioni dell’identità di genere
L’approccio del medico alle persone con varianza di genere
Pediatri e medici di base svolgono un ruolo fondamentale per identificare, tutelare e proteggere le persone con varianza di genere, nelle fasi di accoglienza, sospetto, diagnosi, supporto personale, familiare e sociale, invio all’equipe specialistica.
Nella fase di accoglienza, il professionista deve subito trasmettere un atteggiamento friendly e mettere in chiaro che il suo compito come sanitario non sarà mai quello di giudicare o riferire quanto condiviso e che non saranno negate risorse. Il medico deve saper instaurare con il paziente anche quando è un minore una relazione autentica in cui la persona possa sentirsi compresa e accolta. Un punto essenziale è adottare un linguaggio inclusivo usando nomi e pronomi adeguati alle sue esigenze di autodefinizione.
La fase del sospetto verrà verificata con le domande del Sex Orienteering mirate alla conoscenza di sesso (alla nascita), identità di genere, ruolo di genere (comportamento) e orientamento romantico/sessuale, secondo le indicazioni internazionali e le linee guida WPA 2016. Una volta che ha accolto e compreso l’adolescente gender variant, al medico tocca stabilire con lui una solida alleanza terapeutica che sia funzionale alle sue esigenze e bisogni.
Il primo supporto attiene al bisogno del paziente di informazioni, chiarezza e rassicurazioni. La difficoltà a inquadrarsi in un’identità non binaria può causare confusione, panico, isolamento, vergogna, senso di colpa, per cui sentirsi dire che qualunque identità e orientamento sono di per sé validi e accettabili è garanzia di benessere psicologico e migliore qualità di vita.
Un’altra esigenza delle persone con incongruenza di genere è il bisogno di essere tutelati rispetto a un ambiente transfobico. La “transfobia” è l’intensa avversione, odio, paura e pregiudizio contro le persone transgender, di genere diverso e intersessuali. Può manifestarsi in modo attivo (agendo intenzionalmente contro queste persone in forma di attacchi verbali o fisici, come incitamento all’odio o crimini d’odio quali insulti, aggressioni, percosse, ferimenti, omicidi) o passivo (non riconoscendo o non consentendo l’espressione di varianza di genere o discriminando, come impedire a una persona trans di usare il bagno del genere che ha scelto o rifiutare servizi o lavoro). Anche negare deliberatamente la nuova identità di una persona trans utilizzando i pronomi sbagliati (“misgendering”) o il nome precedente (“deadnaming”) è una forma di transfobia.
Negli adolescenti con non conformità di genere numerosi studi documentano elevato rischio di maltrattamenti in famiglia con svalutazione, punizioni, violenza fisica e verbale, induzione di senso di colpa e vergogna con l’obiettivo di cercare di modificarne il comportamento (si tratta della prima causa di allontanamento ed espulsione da casa dei minori), isolamento e rifiuto da parte dei pari, disadattamento sociale, abbandono scolastico, bullismo, abuso, non solo sessuale, ma anche fisico e psicologico. In conseguenza della transfobia da parte dell’ambiente familiare e sociale, la persona può sviluppare la “transfobia interiorizzata”: insieme di sentimenti e atteggiamenti negativi che una persona prova nei confronti della propria identità sessuale, interiorizzando i modelli maltrattanti con conseguenti scarsa accettazione e bassa stima di sé, senso di inferiorità, vergogna, colpa, accettazione degli stereotipi denigratori.
Il meccanismo del minority stress
Il meccanismo attraverso cui la transfobia impatta sulla salute fisica e mentale dell’individuo minandone la stabilità è il “minority stress”, per cui si intende la sofferenza psicologica inflitta a una minoranza – o un individuo in minoranza- sistematicamente sottoposta a pregiudizio, oppressione, ostilità, ostracismo, rifiuto, disconoscimento, discriminazione, persecuzione, stigmatizzazione, marginalizzazione, odio, aggressione fisica e verbale. Il fenomeno così definito in Psicologia è paragonabile al “disturbo post-traumatico da stress” classificato in Psichiatria. Il minority stress innesca una serie di stati e condotte disfunzionali che rendono conto dell’elevata prevalenza nelle persone transgender rispetto alla popolazione generale, ma anche rispetto alle altre categorie LGB, di consumo di sostanze da abuso, malattie sessualmente trasmissibili, disturbi psichiatrici quali ansia, depressione, disturbi del comportamento alimentare, disturbo ossessivo-compulsivo, autolesionismo e suicidalità. La persistenza dell’ambiente transfobico mantiene in atto i comportamenti a rischio e i sintomi patologici contro ogni tentativo di psicoterapia.
Il “coming out” rappresenta l’unico strumento valido contro le conseguenze del minority stress, per cui il sanitario che ha in cura la persona transgender deve incoraggiarlo, sostenerlo e aiutare il contesto familiare, scolastico-lavorativo, sociale e sanitario a farlo, con la finalità della costruzione di una rete friendly. Il coming out è costituito da una fase “interna”, che è la consapevolezza di essere una persona transgender e una “esterna” che corrisponde alla dichiarazione pubblica e può impiegare anni o addirittura decenni. Le persone transgender di solito hanno la sensazione fin dall’inizio della loro vita che il sesso assegnatogli sia diverso con la propria percezione del sé e non riescono a sincronizzarsi con il proprio ruolo sociale o si sentono fisicamente a disagio, ma il processo di auto-accettazione può risultare estremamente complicato. La persona può mettere in atto un’intensa negazione, consciamente o inconsciamente. La forte discriminazione e violenza può rendere inoltre il coming out “esterno” una decisione rischiosa. La paura di comportamenti di ritorsione, come essere allontanati dalla casa dei genitori, può influenzare la decisione di una persona transgender di non parlare con le proprie famiglie a o aspettare fino a quando non avranno raggiunto l’indipendenza in età adulta.
La gestione specialistica
La gestione specialistica viene affidata a un team multi-disciplinare che accompagna la persona con varianza di genere in un percorso articolato e complesso che prevede 5 passaggi fondamentali:
- assessment;
- management della comorbilità;
- facilitazione della formazione dell’identità;
- management dell’identità sessuale;
- valutazione dopo la cura.
Sebbene le attuali linee guida internazionali non prevedano l’intervento psicologico quale passaggio obbligato nell’iter per la transizione, il ricorso allo specialista si rende solitamente opportuno per i vissuti di incertezza, confusione, sofferenza, disperazione. Nel caso dei minori gender variant, il management psicologico risulta indispensabile, preferibilmente a cura di un esperto con formazione specifica in età evolutiva e varianza di genere. Sono previsti colloqui clinici con il minore, i familiari e/o altre figure di riferimento e la somministrazione di test psicometrici ai fini di una valutazione generale del funzionamento del minore.
Le persone che sono gender variant, ma non manifestano influenze negative sulla loro qualità della loro vita, non rientrano nella diagnosi di disforia di genere. L’ansia e la sofferenza che si sviluppano in risposta alla transfobia non rientrano nella disforia di genere ma sono effetti del minority stress. Anche l’accettazione da parte dei cosiddetti SOFFAs (Significant Others, Family, Friends or Allies of transgender persons), in primis i genitori, è un processo che deve essere ben sostenuto per superare i sentimenti di ansia, confusione, incertezza e isolamento e che spesso richiede opportuna psicoterapia familiare per fornire risorse e strumenti atti ad ampliare il loro punto di vista.
I danni dell’approccio correttivo
E’ oggi universalmente proscritto un approccio al minore gender variant di tipo correttivo, cioè mirato ad allineare l’identità di genere con il sesso biologico, anche se ciò dovesse rappresentare l’aspettativa o la richiesta esplicita o implicita dei familiari, in quanto invalida il senso del sè con esiti devastanti per il giovane. L’approccio correttivo della incongruenza di genere è assimilabile alle “terapie riparative” o “eteronormative” o di “conversione” o di “riorientamento sessuale” per l’omosessualità: un insieme di metodi e interventi, di tipo medico e/o psicologico, finalizzati a modificare l’orientamento sessuale da omo- ad eterosessuale, definite “prive di fondamento scientifico, immorali e dannose e in alcuni casi delle vere e proprie forme di tortura” dalla WPA, che le ha espressamente vietate in una Nota del 2016, accolta in Italia nel 2018 dalla Società Italiana di Psichatria, su pressione di AMIGAY; sono vietate nel nostro Paese anche dalle Linee Guida degli Psicologi Italiani. L’approccio corretto è, a seconda dei casi, di tipo “supportivo”: atteggiamento di sostegno sui sintomi di sofferenza e di attesa riguardo alle decisioni sul genere, o “affermativo”: incoraggiamento dell’esplorazione attiva e dell’espressione dell’identità di genere prescelta dal minore, permettendogli di utilizzare il nome scelto, l’abbigliamento e i giochi che preferisce.
L’equipe sanitaria che prende in carico la persona con incongruenza di genere non deve cadere nel tranello di incarnare la funzione di “gatekeeper” (letteralmente “guardiano del cancello”), ossia colui che, in nome della propria competenza, si assume il compito di gestire tutte la scelte, senza porsi in una condizione empatica con l’utente. I gatekeeper medici possono rallentare il ritmo della transizione di una persona transgender o negarlo del tutto, basandosi sulla convinzione che le persone transgender non siano in grado di determinare la propria identità e debbano sottoporsi a mesi o addirittura anni di psicoterapia prima di avere il permesso di iniziare la transizione. Alcuni gatekeeper affermano che i problemi psicologici costituiscono motivo per ritardare o negare la transizione, senza tener conto che le problematiche psicologiche sono spesso causate dalla loro disforia corporea e dallo stress di passare la vita con la sensazione di essere nel sesso sbagliato. Anche il gatekeeping può essere considerato una forma di transfobia.
La terapia per bloccare la pubertà
Mentre per il bambino gender variant non è previsto alcun intervento di tipo medico, nel caso dell’adolescente, va valutato dal centro di alta specializzazione, preferibilmente entro la prima fase Tanner di sviluppo puberale, se rientri nei criteri previsti dalle linee guida internazionali e nazionali per iniziare il protocollo di sospensione dello sviluppo puberale tramite l’utilizzo di analoghi dell’ormone ipotalamico (GnRH) che determina il rilascio delle gonadotropine (triptorelina). La triptorelina sopprime momentaneamente la produzione di estrogeni e testosterone e di conseguenza blocca lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari, in modo da lasciare il giovane in una condizione di neutralità, ma non rappresenta necessariamente l’inizio del percorso di affermazione o transizione di genere: non è affatto “il farmaco che fa cambiare sesso ai bambini”, come è stato strumentalmente definito a fini di polemica. La terapia per bloccare la pubertà è un trattamento reversibile che può essere interrotto in qualsiasi momento, sia che emergano complicanze, sia che il soggetto desista dalla incongruenza di genere. Appena il trattamento viene interrotto, la pubertà riprende nella direzione del sesso biologico. Il significato dell’intervento ormonale è molteplice:
- Evitare che i cambiamenti corporei della pubertà scatenino l’acuirsi della sofferenza psichica (disforia) per l’espressione naturale e irreversibile del sesso biologico nella direzione non desiderata.
- Dare modo all’adolescente di rinviare il momento della decisione se intraprendere la transizione di genere, prolungando la fase di approfondimento psicologico della sua identità e di esplorazione di comportamenti e vissuti, senza la pressione indotta dai cambiamenti fisici e ormonali e il disagio ad essi legati, e con minor esposizione a fenomeni di stigmatizzazione, disconoscimento e discriminazione legati alla sua incongruenza di genere.
- Creare un minor impatto e portata di eventuali interventi medici e chirurgici di riassegnazione del sesso, nel caso il soggetto voglia ricorrervi in seguito.
Numerose evidenze scientifiche confermano che la sospensione della pubertà indotta dalla triptorelina in adolescenti con disforia di genere sia in grado di ridurre in modo significativo i problemi comportamentali ed emotivi e il rischio suicidario, nonché di migliorare il funzionamento psicologico generale. La Società Italiana di Endocrinologia, la Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità, la Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica, l’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, hanno riconosciuto in una nota congiunta il valore medico ed etico della determina pubblicata da Aifa di autorizzazione all’uso del farmaco negli adolescenti con disforia di genere. Per l’accesso al trattamento in Italia è richiesta l’attestazione da parte del Neuropsichiatra Infantile o dello Psichiatra che l’adolescente (oltre all’assenza di psicopatologie associate), alle prime modificazioni indotte dallo sviluppo puberale, ha manifestato un aumento dell’intensità della disforia di genere, con una significativa sofferenza personale. Questa restrizione è criticabile in quanto è stato verificato che alcuni adolescenti gender variant accentuavano i vissuti di sofferenza per ottenere la triptorelina.
Prima dell’inizio del percorso di transizione, è vantaggioso incoraggiare il cosiddetto “Real time test” o “Real-Life Experience”, in cui la persona trans deve esercitarsi a vivere nel ruolo di genere con cui si identifica per qualche tempo che può variare da un paio di mesi ad anni, sperimentando la qualità della vita nel genere desiderato. In questo periodo il giovane va attentamente monitorato perché può accadere che il desiderio di adeguarsi al genere desiderato lo porti ad accedere a ormoni auto-somministrati acquistati via web, con gravi rischi di inappropriatezza ed effetti avversi, o essere esposto a stress e rischi.
Il percorso di affermazione di genere passerà poi attraverso l’assunzione di ormoni “cross sex” che inducono la mascolinizzazione o la femminilizzazione del corpo, e infine gli interventi chirurgici, previsti in Italia solo per i maggiorenni.