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Obesità, perché quello che si mangia conta di più di quanto si mangia

Un nuovo modello interpretativo dell’obesità potrebbe rendere più efficaci le iniziative di salute pubblica per combatterla. È questo l’obiettivo di un articolo firmatoda un team di 17 ricercatori clinici ed esperti di sanità pubblica di livello internazionale, pubblicato dall’American Journal of Clinical Nutrition.

La proposta dei ricercatori è quella di abbandonare il modello quantitativo del “bilancio energetico” a favore di una visione che punti l’attenzione maggiormente sui processi metabolici. In pratica il messaggio di fondo è che quello che si mangia è più importante di quanto si mangia.

Le contraddizioni del modello del ‘bilancio energetico’

Il sovrappeso, secondo l’interpretazione utilizzata da decenni, sarebbe determinato soprattutto da uno squilibrio tra l’energia assunta e quella bruciata. Le persone, se non hanno problemi di accesso al cibo, tendono ad assumere con l’alimentazione più calorie di quelle che l’organismo riesce a bruciare e quindi si accumula il grasso in eccesso.

Da qui la raccomandazione: “mangia meno e muoviti di più”, che fa parte ormai dell’educazione sanitaria di base a tutte le latitudini. Tuttavia i tassi di obesità delle popolazioni continuano a salire, anche nei paesi a basso e medio-reddito.

In questo nuovo paper i ricercatori esaminano a fondo le contraddizioni del modello del bilancio energetico, che definiscono tautologie. Lo squilibrio determinato da un’immissione di energia superiore al dispendio descrive il fenomeno ma non ne indica le cause. Per esempio durante lo scatto di crescita puberale, l’apporto energetico supera il dispendio, ma è la fase di crescita che stimola l’appetito oppure è la nutrizione che stimola la crescita?

Un’altra tautologia riguarda l’appetibilità dei cibi. La maggiore appetibilità dei cibi proposti nelle catene alimentari moderne è indicata come una delle cause dell’eccessiva assunzione di cibo, tuttavia, fanno notare i ricercatori, l’appetibilità non è intrinseca agli alimenti, ma è determinata dal modo in cui il cervello li percepisce  e quindi non è chiaro se siano gli alimenti ad essere più appetibili e ad aumentare la richiesta o viceversa la maggiore richiesta a renderli più invitanti.

In pratica dicono i ricercatori dicono che concentrandoci sul comportamento (quanto mangiamo) si mettono in secondo piano gli effetti biologici di quello che mangiamo.

L'enigma del "set point" del peso corporeo 
Nell'articolo pubblicato sull'American Journal of Clinical Nutrition gli autori evidenziano un altro aspetto ancora poco compreso della tendenza all'obesità che si è sviluppata negli ultimi decenni. Si tratta dell'aumento del cosiddetto "set point" del peso corporeo. Negli anni '60, l'uomo medio negli Stati Uniti pesava intorno ai 75 kg. Fornire energia alimentare in eccesso per aumentare il suo peso a 90 kg avrebbe suscitato risposte biologiche per resistere a questo aumento (ad esempio, diminuzione della fame, aumento del dispendio energetico). Oggi, l'uomo medio negli Usa pesa intorno ai 90 kg; limitare l'energia per ridurre il suo peso a 75 kg susciterebbe risposte opposte, ossia maggiore appetito, minore energia disponibile. Il modello del bilancio energetico non è in grado di spiegare perché il "punto di equilibrio" tra energia immessa ed energia consumata si è spostato verso un peso corporeo maggiore.

Il modello interpretativo dell’obesità basato sul rapporto carboidrati-insulina

Secondo il primo autore dello studio David Ludwig, endocrinologo del Boston Children’s Hospital e professore all’Harvard Medical School:

concettualizzare l’obesità come un disturbo del bilancio energetico utilizza un principio fisico, senza considerare i meccanismi biologici alla base dell’aumento di peso. L’attuale epidemia di obesità è dovuta, almeno in parte, alle risposte ormonali ai cambiamenti nella qualità degli alimenti: in particolare, gli alimenti ad alto carico glicemico, che modificano radicalmente il metabolismo.”

Invertendo la prospettiva più diffusa, i ricercatori pensano che nel lungo periodo non sia il bilancio energetico con calorie in eccesso a provocare l’aumento dell’adipe; al contrario è il cambiamento nella partizione del substrato che favorisce l’accumulo di grasso e porta ad un bilancio energetico positivo. Il carico glicemico è uno degli elementi chiave di questo nuovo approccio.

Il marcato aumento di alimenti ad alto carico glicemico in diete a basso contenuto di grassi, con un concomitante aumento dei carboidrati totali unito all’alto indice glicemico dei moderni carboidrati trasformati, produce una sequenza di eventi fisiopatologici che limita la disponibilità di carburante per i tessuti ossidativi o sensibili all’energia, specialmente nella tarda fase postprandiale, determinando un bilancio energetico positivo.

Il carico glicemico elemento chiave dei processi che portano all’immagazzinamento di energia

Quando mangiamo carboidrati altamente trasformati, il corpo aumenta la secrezione di insulina e sopprime la secrezione di glucagone. Questo processo genera un segnale che dice alle cellule adipose di immagazzinare più calorie, lasciando meno calorie disponibili per alimentare i muscoli e altri tessuti metabolicamente attivi. Il cervello percepisce che il corpo non riceve abbastanza energia, il che porta a sensazioni di fame. Inoltre, il metabolismo può rallentare nel tentativo del corpo di risparmiare carburante. Pertanto, tendiamo a rimanere affamati, anche se continuiamo ad accumulare grasso in eccesso.

Gli alimenti ad alto carico glicemico includono cereali lavorati, prodotti a base di patate e alimenti con un alto contenuto di zucchero libero. La maggior parte della frutta fresca intera, dei cereali poco lavorati, dei legumi, delle noci e delle verdure non amidacee ha un carico glicemico moderato o basso. I grassi e le proteine, senza alcun impatto diretto sulla glicemia postprandiale, hanno un carico glicemico nominale zero.

Nuove strategie per combattere l’obesità

L’adozione del modello carboidrati-insulina rispetto al modello del bilancio energetico ha implicazioni radicali per le strategie sanitarie che puntano alla gestione del peso e al trattamento dell’obesità. Piuttosto che spingere le persone a mangiare di meno, una strategia che di solito non funziona a lungo termine, il modello carboidrati-insulina suggerisce un altro percorso che si concentra maggiormente su ciò che mangiamo.

Secondo Ludwig:

ridurre il consumo dei carboidrati rapidamente digeribili che hanno inondato la dieta quotidiana nell’era della dieta a basso contenuto di grassi può ridurre lo stimolo a immagazzinare il grasso corporeo. Di conseguenza, le persone possono perdere peso con meno fatica”.

Gli autori riconoscono che sono necessarie ulteriori ricerche per testare in modo conclusivo entrambi i modelli e, forse, per generare nuovi modelli. A tal fine, auspicano un dialogo costruttivo e “collaborazioni tra scienziati con punti di vista diversi per testare le diverse teorie in una ricerca rigorosa e imparziale”.

 

Alessandro Visca
Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.