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Burnout, medici gratificati dai pazienti e penalizzati dall’organizzazione

  • Alessandro Visca
  • Sanità

Basso riconoscimento del merito, carichi di lavoro eccessivi e scarsità di risorse. Sono questi tre i motivi principali che determinano burnout degli operatori sanitari. La condizione per cui ci si sente stanchi, emotivamente esausti, incapaci di far fronte alle richieste di lavoro è stata al centro di un’Indagine curata da ISTUD Sanità e Salute.

L’indagine “la vita dentro le organizzazioni sanitarie”, si è svolta da dicembre 2023 a gennaio 2024, e ha coinvolto a 176 operatori sanitari tra i 25 e i 77 anni di età, (media 52 anni) ai quali è stato somministrato il Maslach Burnout Inventory uno specifico strumento psicodiagnostico standardizzato, e degli inviti narrativi: «Mi sento…» «Penso…» «Voglio…» «Gli altri che lavorano con me…» e «Le persone che curo…».

Maria Giulia Marini, direttore scientifico dell’Area Sanità e Salute di ISTUD, spiega:

il test del burnout di Maslach del 1981 fa vedere quanta strada hanno fatto i professionisti sanitari diventando empatici e compassionevoli senza fatica e facendo di questo, un punto di forza, non più di debolezza. L’attitudine dei partecipanti ci fa capire quanto, una volta abbracciata la volontà di professare la cura, questa diventi parte identitaria della persona. È dal paziente che si trae il senso della professione di cura: l’allarme, invece, deve scattare nel management che, nella percezione dei suoi collaboratori è distante e poco riconoscente. Ed è un peccato, a fronte di tanta motivazione e competenza”.

“Dai dati della ricerca emerge chiaramente che il rischio di scarsa empatia tra medico e paziente è bassissimo – aggiunge Marini – per il medico, la persona-paziente è una fonte di ricchezza, di gratitudine, potremmo dire di nutrimento. L’infermiere continua a lavorare proprio perché ci sono i pazienti. Il rischio di burnout tra colleghi è molto basso; invece, dalla ricerca emerge un sentimento di depersonalizzazione nei professionisti sanitari quando il management tratta i medici e gli infermieri come degli oggetti. È questo l’ambito dove la cultura deve innovarsi, passando da un modello meccanico tayloristico ad una cultura di management umanistico e umanizzante”.

I partecipanti

A parità di stratificazione di invii nelle diverse Regioni italiani, nel Nord ha risposto il 65.9% degli interpellati, nel Centro il 19.1% e nel Sud il 15.8%. Il 73.9% delle risposte narrative e quantitative provengono da donne, il 25.5% da uomini e lo 0.6% scrive altro. Per quanto riguarda le professioni sanitarie che hanno risposto all’indagine il 44.4% è medico, il 43.3% è infermiere, mentre il restante 12.3 % è composto da psicologi, fisioterapisti, logopedisti ed altre figure che operano in sanità.

Le risposte agli inviti narrativi

“Mi sento…”

Il disagio totale è presente nel 43% delle narrazioni interpretate, mentre l’agio completo nel 21%: nell’intervallo di questi numeri si posizionano disagi parziali o vissuti di ambivalenza. “Poco valorizzata per le competenze acquisite, le qualità e risorse personali, non coinvolta in progetti nonostante la disponibilità e i titoli”; “la sanità pubblica non mette più al centro la salute del cittadino quindi frustrata”; "Sottoutilizzato per le mie capacità professionali. Sottopagato per le responsabilità che mi assumo. Poco o nulla tutelato dal punto di vista medico-legale. Frustrato per non vedere chiare possibilità di carriera”. Ma, anche “molto ben accolto, c’è un ambiente familiare e sorridente, molta autonomia personale e grande apprezzamento per quello che ognuno fa e gestisce, senza rivalità come accadeva nel precedente luogo di lavoro dal quale provengo”.
“Penso…”

Quando ci si sposta dal lato emozionale e fisico a quello cognitivo: “Penso …” il disagio totale si abbassa lievemente al 36%, dal 43% di prima, ma l’agio totale si colloca al 12% indicando la criticità permanente della situazione.  Penso che “il servizio da me svolto dovrebbe avere maggiore integrazione con gli altri specialisti perché si possa parlare davvero di cura”; “che ci sia bisogno di una spinta innovativa che metta al centro le persone tutte, sia professionisti che utenti”, “che potremmo organizzare meglio tempo e risorse, che spesso di tutta la fatica e gli sforzi che mettiamo in campo ne emerga solo una piccola parte” e anche, penso che “ci sia lo spazio per lavorare con umanità facendo della relazione un prezioso tempo di cura”, “che sono fortunata a lavorare con un bel gruppo”.
“Voglio…”

Nella narrazione del “Voglio…” il disagio totale si abbassa nel 10% delle narrazioni contemplate ma è alto il 45% del disagio parziale, con un agio completo del 9%. Accanto a queste testimonianze di missione “raggiunta” “possibilmente essere d'aiuto”, “continuare ad amare questo lavoro”, vi sono: “voglio resistere fino alla pensione”, “voglio andare via”, “lasciare il lavoro”, “volevo...ora faccio il mio e basta”.
“Le persone che curo…”

All’invito narrativo “Le persone che curo…”  il disagio totale è solo del 5% e l’agio totale (35%) e parziale (15%) insieme, raggiungono il 50%, sottolineando il ribaltamento delle percentuali: “devo gratitudine a loro perché i pazienti sono sempre maestri”, “ognuno di loro è un mondo, unico, fragile e meraviglioso da cui ricevo la dimensione dell'importanza, della tristezza e della bellezza della vita, “percepisco la loro gratitudine”, “sono contente del servizio che offro e mi sono grate”. Pochissimi i frammenti narrativi di questo genere: “Sono la maggior parte irriconoscenti e pretenziosi”, “Scarseggiano spesso per educazione, spesso sono sgarbate o aggressive”. Emerge da “Le persone che curo…” l’intensità della gratitudine e del reciproco riconoscimento, un bene comune in difesa del servizio sanitario.

I dati quantitativi confermano quindi i risultati narrativi: l’esaurimento emozionale non deriva quasi mai dai bisogni dei pazienti, ma dal sistema organizzativo, che esige carichi di lavoro talvolta eccessivi. Per quanto riguarda la realizzazione professionale, il rischio di burnout consiste nella frustrazione per assenza o scarsa di gratitudine del management e non dai pazienti e colleghi.

Il commento

Se vi è depersonalizzazione nei confronti dei medici e infermieri, la stessa cosa, ovvero il trattare questa volta il paziente come un oggetto – precisa Marini – ha un rischio bassissimo, del 2.6%. ” e aggiunge:

questo è un dato straordinario che ci porta a comprendere quanti anni luce siamo lontani dai tempi in cui questo questionario è stato progettato (più di 43 anni fa). Insomma, i professionisti sanitari sono umanamente cresciuti, mentre tanti punti interrogativi aperti sul sistema di management, troppo intriso di politica e non di policies e miope dal punto di vista organizzativo.”

Alessandro Visca
Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.