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Insufficienza venosa cronica e rischio cardiovascolare

  • Anastassia Zahova
  • Medicina

L’insufficienza venosa cronica (IVC) è una delle patologie più diffuse nei Paesi occidentali e in Italia si stima colpisca circa 19 milioni di persone. Più nello specifico, l’IVC interessa una quota variabile tra il 10 e il 50% degli uomini e oltre la metà delle donne. Ritenuta erroneamente un semplice disturbo estetico delle gambe, l’IVC in realtà una condizione molto più complessa, cronica e ingravescente che tende a evolvere velocemente se non adeguatamente diagnosticata e trattata.

Lo studio Gutenberg, di recente pubblicazione, mette in luce alcuni aspetti che stanno portando a riconsiderare la patologia; se finora infatti il disturbo venoso veniva considerato separato dalle patologie arteriose, oggi sulla base delle nuove acquisizioni, l’IVC avanzata si associa a un maggiore rischio cardiovascolare e a un aumento della mortalità per tutte le cause. Una sfida dunque al pensiero tradizionale che necessita di un cambiamento culturale nell’approccio clinico alla malattia venosa cronica che dovrebbe passare attraverso una visione complessiva del paziente e una presa in carico multidisciplinare

a cura di
Dr. Romeo Martini
Angiologia, AULSS 1 Dolomiti, Ospedale San Martino, Belluno

Personalmente ritengo che l’insufficienza venosa cronica (IVC) sia la malattia vascolare più nota e più diffusa nella popolazione mondiale. Nella mia professione di angiologo medico, il gonfiore alle gambe o la presenza di varici sono tra le motivazioni più frequenti che spingono i pazienti a richiedere una visita.

Nell’immaginario “popolare” le vene sono state sempre sinonimo di “circolazione” molto più delle nobili arterie, forse perché visibili. Un esempio? La “vena aorta” viene citata frequentemente dai miei pazienti come il vaso più importante principale del sistema circolatorio insieme alla giugulare molto più conosciuta della nobile carotide.

Inoltre, mi capita spesso che i pazienti affetti da varici degli arti inferiori mi chiedano se sono a rischio di infarto o di ictus. Ammetto che anche io, sino ad oggi, ho sempre rassicurato con un fare bonario i pazienti, dicendo che le varici non hanno alcuna relazione con le placche coronariche e men che meno con l’infarto o con l’ictus cerebrale, né tanto meno con l’ostruzione di una arteria femorale o poplitea. Ho sempre rassicurato il paziente dicendo che la patologia varicosa è un problema degli arti inferiori e che l’insufficienza venosa cronica non avrebbe potuto essere correlata o essere il prodromo di una malattia coronarica.

Bene questo avveniva sino a quando non mi sono imbattuto nello studio “Chronic venous insufficiency, cardiovascular disease, and mortality: a population study” di Jurghen H Prochaska et al., pubblicato sull’European Heart Journal nel 2021. Prochaska e Colleghi hanno selezionato circa 12.000 pazienti affetti da IVC inclusi nel Gutenberg Heart Study, un ampio studio prospettico, iniziato nel 2007 presso il Centro medico universitario di Magonza. Il progetto si concentra su patologie cardiovascolari, cancro, malattie degli occhi, malattie metaboliche, malattie del sistema immunitario e malattie mentali. Lo studio mira a migliorare la previsione del rischio individuale di patologia. Pertanto, vengono studiati lo stile di vita, i fattori psicosociali, l’ambiente, i parametri di laboratorio e l’estensione della malattia subclinica.

I dati ricavati dalla osservazione sui pazienti con IVC avranno sicuramente un impatto sulla futura visione e management del paziente affetto da IVC. Per meglio comprendere la rivoluzione portata da questo studio faccio un passo indietro, considerando che cosa è l’insufficienza venosa cronica.

Inquadramento dell’insufficienza venosa cronica

Con la definizione insufficienza venosa cronica ci si riferisce a uno spettro di entità, legato a patologie sia strutturali che funzionali del sistema venoso. La fisiopatologia della IVC mostra una complessa interazione di disfunzione valvolare venosa e ipertensione venosa con conseguenti alterazioni emodinamiche macro- e microcircolatorie.

Le varici sono la manifestazione clinica più nota e visibile. Oggi la presenza di IVC è valutata in base alla presentazione clinica secondo lo schema di classificazione CEAP (Clinical-Etiologic-Anatomic-Pathophysiologic), comunemente utilizzato per la selezione standardizzata della IVC negli studi clinici ed epidemiologici. Secondo la CEAP, la IVC viene classificata come segue:

  • C0: nessun segno visibile di IVC,
  • C1: teleangectasia (C1a) o varici reticolari (C1b),
  • C2: varici,
  • C3: edema,
  • C4: lesioni cutanee (C4a: pigmentazione/eczema, C4b: lipodermatosclerosi/ atrofia bianca),
  • C5: ulcera guarita,
  • C6: ulcera attiva.

I dati epidemiologici in nostro possesso indicano l’IVC come una patologia molto diffusa nei paesi sviluppati e industrializzati. Tuttavia, le stime di prevalenza variano ampiamente a seconda del contesto dello studio, della regione geografica e della metodologia utilizzata.

Il Vein Consult Program, che ha valutato più di 91.000 soggetti in varie regioni geografiche, ha messo in evidenza una prevalenza mondiale di IVC di circa il 60%. L’Edinburgh Vein Study e il San Valentino Vascular Screening Project hanno mostrato percentuali di IVC tra il 7 e il 10%.

Ulteriori report evidenziano inoltre come la IVC abbia un significativo impatto sulla qualità di vita dei pazienti e in termini di spesa sanitaria. Negli USA, ad esempio, si stima che più di 25 milioni di adulti siano affetti da IVC, di cui 6 milioni con malattia avanzata e di questi, circa il 20% con ulcerazioni cutanee e disabilità, con perdita di 2 milioni di giorni lavorativi, per un costo sociale di circa 3 miliardi di dollari all’anno.

Nella popolazione estratta dallo studio Gutenberg, la prevalenza di IVC era del 36,5% per teleangectasie e varicosità reticolari (C1), 13,3% per vene varicose (C2), e 40,8% per IVC (C3-C6). Tra tutte le manifestazioni cliniche della IVC la classe CEAP C3 ha mostrato la prevalenza più alta, 30,1%, seguita dall’insufficienza venosa con alterazioni cutanee non acute (C4) 10,5%, e IVC con ulcerazione (C5/C6) 0,2%.

Fattori di rischio per IVC

Gli Autori hanno indagato nella popolazione in studio la presenza dei classici fattori solitamente associati alla IVC, cioè sesso femminile, obesità, familiarità, vita sedentaria, invecchiamento, evidenziando una significativa correlazione tra IVC, età avanzata e sesso femminile.

Il rimodellamento vascolare che avviene con l’età coinvolge pareti e valvole delle vene superficiali, concorrendo alla formazione delle varicosità e della IVC. Per quanto riguarda il sesso femminile, gli studi indicano che i cambiamenti fisiologici che avvengono durante la gravidanza, come l’aumento dei liquidi e del peso corporeo nonché della compressione che l’utero gravido esercita sulle vene iliache, insieme agli effetti diretti degli ormoni sessuali, sono rilevanti per la fisiopatologia della IVC. Inoltre, l’ipercoagulabilità associata alla gravidanza o l’uso di contraccettivi orali forniscono ulteriori elementi per spiegare l’aumento del rischio di IVC nelle donne.

Nello studio Gutenberg l’età avanzata e il sesso femminile vengono confermati come fattore di rischio di IVC, tuttavia è interessante notare come questi fattori siano presenti già nelle fasi precoci della malattia. L’analisi di Prochaska et al. non si è fermata solo ai cosiddetti fattori di rischio “classici”, ma si è estesa a valutare l’associazione della IVC con alcuni fattori di rischio cardiovascolare, solitamente ritenuti “lontani”.

Fattori di rischio cardiovascolare e IVC

Considerando l’alta prevalenza della IVC nella popolazione, è da sottolineare che i fattori di rischio cardiovascolare e le comorbidità erano altamente prevalenti negli individui con IVC. I risultati hanno confermato l’idea che le comorbilità cardiovascolari mostrano un profilo distinto in tutto il continuum di insufficienza venosa. L’età, il sesso femminile, il diabete mellito, l’obesità, l’ipertensione arteriosa, il fumo e le malattie cardiovascolari sono stati rilevati come predittori indipendenti di IVC, mentre solo l’età e il sesso femminile erano associati a un rischio più elevato per la presenza di vene varicose, teleangectasie o vene reticolari.

Questi dati sono di particolare importanza perché si aggiungono a una limitata letteratura disponibile che suggerisce come il fumo e in particolare l’obesità, nota per contribuire alla stasi venosa e all’infiammazione sistemica, siano di fatto fattori di rischio per lo sviluppo di IVC.

Per quanto riguarda l’ipertensione arteriosa e malattie cardiovascolari, solo pochi studi riportano una relazione con la IVC mentre Prochaska et al. descrivono prove disponibili che supportano un’interdipendenza tra l’ipertensione arteriosa e venosa. Il rimodellamento vascolare periferico e l’infiammazione sistemica con conseguente ipercoagulabilità rappresentano punti in comune che potrebbero spiegare l’importanza dell’ipertensione per lo sviluppo della malattia in entrambi i letti vascolari.

Infine, gli Autori evidenziano che tutti i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare (ipertensione, diabete mellito, dislipidemia, storia familiare di infarto miocardico e/o ictus, obesità e fumo) sono rilevabili maggiormente nei pazienti con IVC avanzata CEAP C3-C6. Questo dato si accompagna a una maggiore co-prevalenza di malattie cardiovascolari.

Fatta eccezione per la broncopneumopatia cronica ostruttiva, tutte le comorbidità cardiovascolari hanno mostrato la più alta prevalenza nei pazienti CEAP (C3-C6) rispetto ai pazienti con vene varicose e teleangectasie o vene reticolari CEAP C1-C2 o senza IVC, CEAP C0. Prochaska e Colleghi hanno inoltre evidenziato che la IVC in fase avanzata, CEAP C3-C6, era frequentemente associata alla presenza di arteriopatia periferica e tromboembolismo venoso, mentre i pazienti con forme più lievi di IVC, CEAP C1-C2, non presentavano alcuna associazione significativa con specifiche malattie cardiovascolari.

L’ipotesi di un potenziale cross-talk tra i letti vascolari arteriosi e venosi non è un’osservazione recente. Già in passato i dati del Framingham Heart Study dimostravano che gli individui con IVC sperimentavano una maggiore incidenza di future malattie cardiovascolari aterosclerotiche rispetto a quelli che non avevano vene varicose. Molto recentemente, uno studio retrospettivo taiwanese ha evidenziato che la presenza di vene varicose era associata a un’aumentata incidenza di tromboembolia venosa e malattia delle arterie periferiche.

Tutta questa mole di dati evidenzia uno stretto link tra la IVC e le malattie cardiovascolari che precedentemente allo studio Gutenberg non era mai stato messo in così forte risalto.

Tuttavia, un ulteriore dato che emerge prepotentemente dallo studio Gutenberg è quello sulla valutazione prospettica del rischio di decesso per tutte le cause nei pazienti affetti da IVC. In un follow-up di 6,4 ±1,6 anni, nei soggetti con IVC CEAP C3-C6 la mortalità per tutte le cause era significativamente più elevata in confronto con individui liberi da malattia. Nell’analisi di regressione di Cox, la IVC è emersa come fattore di rischio per decesso da tutte le cause indipendentemente da età, sesso, tradizionali fattori di rischio cardiovascolari, malattie cardiovascolari e cancro, risultato confermato dopo ulteriore aggiustamento per terapia cardiovascolare.

Lo studio Gutenberg ha messo pertanto in evidenza che i fattori di rischio cardiovascolare e le comorbidità sono altamente prevalenti nei soggetti con IVC. I risultati hanno confermato l’idea che le comorbilità cardiovascolari mostravano un profilo distinto lungo tutto il continuum dell’insufficienza venosa cronica.

Cosa cambia dopo lo studio Gutenberg

Come affrontare un paziente con IVC? Posso ancora tranquillizzarlo quando mi chiede se la sua salute è a rischio? Credo che alla luce di questi dati qualche cambiamento lo farò, nel senso che continuerò a tranquillizzare il mio paziente, in quanto siamo davanti a uno studio che potremmo definire di avanguardia e innovativo, ma sicuramente i dati dovranno essere confermati da altre osservazioni simili. Certamente lo studio Gutenberg una riflessione la invita a fare.

L’atteggiamento con cui ci si pone di fronte al paziente con IVC dovrà sicuramente cambiare. Non credo sia più bastevole guardare solo le gambe, ma occorre considerare che dopo un certo stadio clinico, CEAP C3, l’associazione con i fattori di rischio per malattie cardiovascolari e la mortalità per tutte le cause sono più elevate.

Sebbene lo studio Gutenberg non stabilisca un ruolo causale della IVC per lo sviluppo di malattie cardiovascolari, esso suggerisce comunque l’esistenza di un forte legame tra malattia vascolare arteriosa e venosa. Come riportato sopra vari fattori intervengono a creare un link tra i due versanti circolatori, venoso e arterioso.

Rimodellamento vascolare periferico, infiammazione sistemica, ipercoagulabilità rappresentano punti in comune tra vene e arterie, che possono spiegare la presenza di malattia in entrambi i letti vascolari. Poiché l’infiammazione sistemica è comunemente accettata per svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella progressione sia arteriosa che venosa della malattia vascolare, le alterazioni mediate dall’infiammazione nell’endotelio in entrambi i letti vascolari potrebbero essere la conseguenza dell’esposizione ai tradizionali fattori di rischio cardiovascolare.

Le cellule endoteliali venose mostrano una ridotta segnalazione di ossido nitrico in pazienti con diabete, obesità e con abitudine al fumo. Vene prelevate da pazienti con malattia venosa cronica mostrano maggiore stress ossidativo, aumento dell’infiammazione e funzione endoteliale alterata. Anche i biomarcatori di trombosi e infiammazione mostrano valori più elevati nei pazienti con malattia venosa cronica e patologie arteriose. L’epidemiologia genetica della trombosi venosa dimostra ampie intersezioni con malattie arteriose, inclusi lipidi e l’inibitore del plasminogeno di tipo 1 (PAI- 1). Ciò può anche portare a un cross-talk sistemico tra vene e arterie tramite meccanismi condivisi generali.

Da considerare che le osservazioni di Prochaska, tuttavia, non hanno incluso una valutazione funzionale dell’ipertensione venosa e la presenza di reflusso venoso, che aiuterebbero a chiarire meglio l’eziologia dei sintomi venosi. Inoltre, molte altre variabili che potrebbero influenzare i risultati non sono state riportate, come per esempio lo stile di vita, la sedentarietà, l’attività fisica o l’alimentazione.

Nonostante queste perplessità ritengo che lo studio Gutenberg rappresenti una vera svolta nel management della IVC. L’impostazione basata sulla popolazione e la fenotipizzazione completa degli individui, selezionati da personale appositamente formato in un centro studi dedicato, tutti i dati, inclusi gli esiti clinici, registrati in modo altamente riproducibile e standardizzato, fanno dello studio di Prochaska et al. un punto di partenza solido per ulteriori indagini in altri contesti, che aiuteranno a esplorare la generalizzabilità dei risultati.

Probabilmente la ricerca futura valuterà la fisiopatologia che collega il rapporto dell’IVC con la malattia cardiovascolare arteriosa, ma nel frattempo continuerò a tranquillizzare i miei pazienti e me stesso allargando le indagini conoscitive sui fattori di rischio cardiovascolare, impiegando magari qualche minuto in più, ma probabilmente migliorando la possibilità di sopravvivenza dei pazienti con IVC avanzata.

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Anastassia Zahova

Giornalista medico scientifico