Skip to content
dna spirale

Ricerca, identificati i marker genetici della longevità

Secondo i risultati di una nuova ricerca australiana il segreto della longevità si nasconde nelle isole CpG del genoma

a cura di Cesare Peccarisi

L’invecchiamento e i fenomeni di decadimento organico e cerebrale che lo accompagnano sono correlati ad alterazioni epigenetiche che coinvolgono i processi di metilazione del DNA.

Uno studio pubblicato su Scientific Reports dai ricercatori dell’University of Western Australia diretti da Benjamin Mayne e Simon Jarman insieme a quelli della Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (CSIRO) di Crawle, Hobart e Perth, ha identificato un predittore genomico di fine-vita basato sulla densità dei dinucleotidi CpG,  che rappresentano il target dei processi di metilazione del DNA.

Queste cosiddette isole CpG sono state correlate all’aspettativa naturale di vita  che per l’Homo sapiens risulterebbe di 38 anni, di poco superiore a quella dell’uomo di Neanderthal (37,8 anni) e comunque in linea con l’aspettativa media di vita dei 40 anni stimata per l’uomo moderno, oggi raddoppiata grazie alla scienza medica. Il lifespan clock è in grado di predire la durata di vita sulla base delle sequenze genomiche: il processo base del biomarker è la modificazione covalente della citosina in 5-metil-citosina, processo che regola l’espressione dei geni della longevità senza alterare la sequenza del DNA.

La concentrazione di isole CpG fa da argine alla metilazione

Il fatto che con l’avanzare dell’età la metilazione del DNA possa aumentare o ridursi a prescindere dai fenomeni epigenetici ha confermato che una maggior concentrazione di isole CpG può offrire una maggior aspettativa di vita opponendosi alla disregolazione indotta dall’accumulo di metilazioni che si verificano nella vita usando solo 42 specifici geni promotori.

Indagando il genoma di altri vertebrati notoriamente longevi i ricercatori, grazie ai dati raccolti da 4 database internazionali (NCBI Genomes, EPD, AnAge e TimeTree), hanno confermato che la densità di tali gruppi di geni promuove la longevità, pubblicando così il primo studio che fornisce un predittore dell’aspettativa di vita a partire da marker genetici.

Per il momento le ricadute pratiche della scoperta più che per l’uomo sono volte a valutare specie longeve come le tartarughe delle isole della Pinta che vivono in media un secolo e risultano avere un’aspettativa di vita di 120 anni.

Oppure specie estinte come il mammut lanoso (Mammuthus primigenious) che avrebbe avuto un’aspettativa di vita di 60 anni.

Certamente fa comunque impressione ripensare che nel noto film Blade Runner di Ridley Scott, ambientato proprio nel 2019, il creatore di replicanti Edmund Tyrell, padrone della Tyrell Corporation, risponda di non saper prolungare la sua aspettativa di vita al replicante Roy che gliene chiedeva di più dopo aver capito di essere arrivato alla data di termine.

Forse a Tyrell gli studi sulle isole CpG erano sfuggiti…

 

 

Cesare Peccarisi

Giornalista scientifico, neurologo, editorialista del Corriere Salute, Responsabile Comunicazione Scientifica della Società Italiana di Neurologia (SIN)