La prevenzione dell’infezione da HIV rappresenta ancora oggi una sfida complessa, soprattutto in quelle popolazioni che, per ragioni sociali, culturali o strutturali, incontrano barriere nell’accesso ai servizi sanitari. Tra queste, la popolazione transgender mostra tassi di incidenza di HIV significativamente superiori rispetto alla media, a fronte di un utilizzo ancora limitato della profilassi pre-esposizione (PrEP), uno strumento di comprovata efficacia nella prevenzione dell’infezione.
Per rispondere a questo gap, il progetto “Implementazione dei servizi di testing territoriale comunitario per l’incremento dell’accesso alla PrEP nella popolazione transgender”, promosso dall’Università degli Studi di Milano propone un modello innovativo di prevenzione combinata e prossimità sanitaria.
Il progetto sarà realizzato nel corso dei prossimi 12 mesi con il finanziamento aggiudicato all’Edizione 2025 del Bando di concorso Fellowship Program di Gilead Science. Responsabile scientifico è Andrea Gori, direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano e professore ordinario di Malattie Infettive all’Università Statale di Milano.
Professor Gori, qual è l’obiettivo principale del progetto?
Il progetto nasce dalla consapevolezza che in Italia esiste ancora una quota significativa di persone con infezione da HIV che ignorano la propria condizione. Questo “sommerso” è uno dei principali fattori che mantengono alta la circolazione del virus HIV nella popolazione generale.
L’obiettivo è dunque potenziare il testing e le attività di prevenzione in gruppi particolarmente vulnerabili, come la popolazione transgender, dove stigma, barriere culturali e scarsa informazione rendono difficile l’accesso ai servizi”.
Quali sono, in concreto, gli ostacoli principali che limitano l’accesso alla PrEP per la popolazione transgender?
Il primo ostacolo è lo stigma. Nonostante si parli spesso di inclusività, nella realtà queste persone sperimentano ancora una forte marginalizzazione. A ciò si aggiungono barriere linguistiche e culturali, che rendono complesso l’accesso spontaneo ai centri infettivologici o ai servizi di prevenzione”.
Il progetto prevede l’attivazione di test “point of care” in contesti comunitari ad alta accessibilità. Ritiene che questo modello possa essere integrato nella medicina generale?
I medici di medicina generale conoscono bene i loro assistiti, anche quelli appartenenti a gruppi più fragili, e possono fornire indicazioni preziose per intercettare e orientare queste persone verso i percorsi di prevenzione. La loro collaborazione può rendere il modello più efficace e capillare”.
In che modo i medici di medicina generale possono collaborare con i centri specialistici e con il terzo settore?
Esiste già una collaborazione bidirezionale. Gli infettivologi si affidano spesso ai medici di medicina generale per la gestione complessiva dei pazienti, mentre i medici di medicina generale si rivolgono a noi specialisti per le problematiche infettivologiche specifiche.
Inoltre, il progetto coinvolge anche le ONG e le associazioni del terzo settore, che negli anni hanno conquistato la fiducia della popolazione transgender. La multidisciplinarietà è la chiave: solo lavorando insieme, specialisti, MMG e terzo settore, possiamo ottenere risultati concreti”.
Quanto conta la formazione dei medici, anche sul piano culturale e relazionale, nell’approccio a questi pazienti?
Serve formazione, ma anche educazione. Non basta conoscere la PrEP o le linee guida: occorre saper interagire con empatia, comprendere i bisogni e le difficoltà specifiche di queste persone. Spesso il problema non è solo tecnico, ma relazionale”.
Per quanto riguarda la profilassi pre-esposizione (PrEP), quale ruolo possono avere i medici di famiglia?
La PrEP è uno strumento straordinario, capace di modificare l’epidemiologia dell’HIV nei prossimi anni. Tuttavia, perché funzioni, è necessario che sia ben conosciuta, correttamente prescritta e monitorata. Anche in questo caso, il contributo dei medici di medicina generale è determinante: possono fare la differenza nella promozione, nell’aderenza e nel follow-up”.
Infine, qual è il valore aggiunto del sostegno di Gilead e della ricerca indipendente in progetti di questo tipo?
La ricerca scientifica affronta i problemi reali, quelli che toccano la vita delle persone. Il supporto di Gilead è fondamentale perché consente di realizzare progetti ad alto impatto sociale e sanitario, che altrimenti non troverebbero spazio nei canali tradizionali di finanziamento. È un modo concreto per migliorare la salute pubblica e la qualità di vita delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili”.



