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Medicina del territorio, le cure primarie viste dai futuri medici

Un progetto del Mario Negri ha coinvolto più di 100 medici in formazione per capire come vedono il loro futuro professionale nel contesto delle cure primarie

Come vedono i futuri medici di medicina generale gli attuali percorsi di formazione e le prospettive di lavoro nelle cure primarie? Quali sono gli ambiti di maggior interesse e le loro necessità formative?

A queste ed altre domande cruciali per lo sviluppo della medicina del territorio prova a rispondere il progetto “MedicInRete – formazione e networking per le cure primarie”, promosso dal dipartimento di Politiche per la salute dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano*.

A un anno dalla partenza del progetto abbiamo incontrato il coordinatore, Alessandro Nobili, responsabile del dipartimento di Politiche per la salute del Mario Negri.

Dottor Nobili, come nasce questo progetto di ricerca e come è stato organizzato?

“A partire dai contenuti del Libro Azzurro per la riforma delle cure primarie in Italia (pubblicato nel 2020) e in collaborazione con l’Alleanza per la Riforma delle Cure Primarie e l’organizzazione Primary Health Care, il progetto è stato ideato per capire come i futuri medici si pongono rispetto alla medicina del territorio, attuale e futura, e ai bisogni di salute della popolazione, anche in termini di prevenzione.

Sono stati coinvolti 116 medici, attualmente in corso di formazione specialistica, con l’obiettivo di creare le basi per un modello di assistenza territoriale più inclusivo, che favorisca il networking e lo sviluppo di progetti innovativi nell’organizzazione della medicina territoriale.

I partecipanti hanno approfondito i principi della Primary Health Care attraverso incontri online e workshop. Nell’ambito di laboratori territoriali istituiti in 13 regioni, i giovani medici, coordinati da 22 referenti del gruppo di lavoro del progetto, hanno individuato le esperienze sul territorio che -per caratteristiche di innovatività e organizzazione- potessero rappresentare un modello utile a delineare la possibile riorganizzazione delle cure primarie.

Sono state quindi mappate oltre 40 esperienze virtuose -raccolte in un libro che sarà pubblicato a breve- già attive sul territorio e che riguardano ambiti diversi: da sperimentazioni di medicina di gruppo, a iniziative volte a promuovere la prevenzione e la salute in popolazioni vulnerabili ed emarginate, o con esigenze particolari, come per esempio i migranti, anche in collaborazione con il Terzo settore.”

Parallelamente è stata condotta anche una ricerca online, cosa è emerso?

“L’indagine SurForMed aveva l’obiettivo di descrivere la visione del futuro professionale, i bisogni formativi e le prospettive future dei medici in formazione. Vi hanno partecipato 347 medici (età media 36 anni e per il 60% donne) che hanno da poco iniziato a esercitare o che stanno completando la propria formazione  frequentando il Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale (CFSMG, 301 iscritti) oppure la Scuola specializzazione in medicina di comunità e delle cure primarie (SSMCCP, 46 iscritti).

Dalla survey emerge chiaramente la volontà di acquisire competenze cliniche e di presa in carico per il lavoro con altri medici e figure professionali in equipe multidisciplinari, conoscere i diversi servizi del territorio e inoltre di acquisire abilità comunicative e di gestione del conflitto.

A differenza dei corsisti CFSMG, gli specializzandi in medicina delle cure primarie (MCCP) sono risultati più propensi a lavorare nelle Case di Comunità (CdC), motivati sia dalla possibilità di offrire un’assistenza di qualità ai pazienti, che dalle opportunità di crescita professionale e sviluppo di competenze specifiche.

Sul fronte delle perplessità, prevalgono preoccupazioni per il sovraccarico lavorativo, la scarsità di tutele contrattuali, le incerte prospettive di carriera e il timore che ruolo e funzione del MMG possano essere snaturate.

Vorrei sottolineare come l’esistenza di due diversi percorsi formativi -per durata, sbocchi e remunerazione- sia in sé una anomalia, e crei una serie di criticità che vanno a penalizzare i giovani che intendono intraprendere questa strada; solo chi frequenta il corso di formazione regionale, infatti, può ottenere la convenzione e diventare medico di medicina generale.”

Quali sono i bisogni formativi segnalati dai partecipanti all’indagine?

“Il primo riguarda la regolamentazione dei percorsi di formazione; la maggioranza dei futuri medici ritiene necessaria la trasformazione del corso in una specializzazione universitaria; resterà poi da capire chi saranno i docenti, non è ipotizzabile che medici ospedalieri possano insegnare a lavorare sul territorio.

Inoltre viene evidenziata la necessità di una formazione più completa, interdisciplinare e intersettoriale, che preveda una maggiore attività sul campo e un aggiornamento continuo. Tra gli ambiti di interesse, emergono la gestione delle emergenze, la disponibilità di una diagnostica strumentale di base, la salute mentale, la medicina delle migrazioni, la medicina di genere e la medicina narrativa.

Altri aspetti ritenuti importanti sono l’organizzazione del lavoro, la possibilità di lavorare in équipe e con altre figure professionali, il ruolo che il medico dovrà assumere all’interno di strutture come le Case della Comunità previste dal PNRR e dal DM 77, e le nuove tecnologie digitali per ottimizzare processi e flussi di lavoro, e migliorare l’assistenza.

In generale, i giovani medici sono ‘più avanti’ rispetto alle proposte formative attualmente disponibili. Sono consapevoli dell’importanza della valutazione e della presa in carico dei bisogni di salute delle popolazioni, soprattutto fragili, e che lavorare in modo individuale è ormai anacronistico.

Serve un approccio multidisciplinare, intersettoriale e interprofessionale, che insegni a lavorare insieme ad altri professionisti, dagli infermieri, agli psicologi, agli assistenti sociali e agli operatori del terzo settore. Ma ad oggi nei percorsi di formazione non esiste la possibilità di imparare a lavorare in squadra.”

Come dovrebbe evolvere il modello di erogazione delle cure primarie affinché possano incontrare i bisogni di una popolazione sempre più anziana e con malattie croniche?

“Se vogliamo che le cure primarie siano in grado di far fronte alle richieste di una popolazione sempre più anziana, con un numero crescente di malati cronici e pluripatologici, è necessario, di nuovo, lavorare in gruppo.

Occorre inoltre ribaltare l’attuale modello, centrato sulle prestazioni, a favore di uno che prenda in carico le persone con i loro bisogni socio-assistenziali che, se non affrontati, possono trasformarsi in problemi di salute. La medicina del territorio dovrebbe farsi carico dei malati e non delle malattie, e curare la salute dei cittadini prima ancora che si ammalino, puntando sulla prevenzione.

Il modello ospedaliero non può essere applicato all’assistenza territoriale, ma deve esservi una stretta comunicazione e integrazione tra ospedale e territorio; solo in questo modo si riuscirà a creare una continuità assistenziale e forse anche a risolvere il problema delle liste d’attesa e dell’abuso del pronto soccorso e dei ricoveri inappropriati.”

E quali interventi potrebbero, a suo avviso, cambiare veramente il modello?

È necessario un salto culturale, senza il quale questa professione è destinata a scomparire; e l’attuazione di riforme dell’intero sistema, che potrebbero non essere gradite a tutti.

La riforma (DM 77/2022) va nella direzione giusta, contiene già gli elementi base; dovrebbe essere realmente attuata e contestualizzata nei diversi territori. Il decreto prevede un approccio integrato all’assistenza territoriale in cui le équipe lavorano avendo come punto di riferimento le CdC, e in cui il MMG lavora in sinergia con altre figure professionali e di supporto.

I modelli a cui ispirarsi esistono: abbiamo studiato gli esempi di Spagna e Portogallo, dove la medicina del territorio è organizzata secondo la logica della Primary Health Care, con lavoro di gruppo in strutture aperte 24 ore al giorno, in grado di andare veramente incontro ai bisogni della popolazione. Tutto funziona in modo più efficiente e la professione ne ha guadagnato in prestigio.

Infine, credo che i medici di medicina generale dovrebbero avere la possibilità di scegliere se essere dipendenti del SSN oppure restare liberi professionisti; a fare la differenza è il modello di lavoro in cui andranno ad operare.”

MedicInRete ha dato ampio spazio al networking tra professionisti; come si potrebbero sintetizzarne le ricadute positive?

“La formazione e il networking possono essere leve fondamentali per rinnovare il Servizio Sanitario Nazionale.

Potrei sintetizzare i vantaggi del lavorare in rete con i concetti di migliore organizzazione del lavoro, maggiore capillarità nella presa in carico e nel monitoraggio dei pazienti e nell’intercettare situazioni che al singolo potrebbero sfuggire, possibilità di lavorare anche nell’ambito della prevenzione e dell’attenzione ai bisogni socio-sanitari dei cittadini. L’approccio interdisciplinare e intersettoriale permette di stabilire piani di cura e assistenza più efficienti.”

Il progetto è stato avviato a gennaio 2024. In cosa consiste la seconda fase, e come si svolgerà?

“Periodicamente si terranno altri interventi formativi per approfondire le diverse tematiche della Primary Health Care. L’obiettivo è quello arrivare alla elaborazione di progettualità specifiche che, una volta valutate dal gruppo di coordinamento, saranno da noi sostenute e portate all’attenzione dei decisori, come ASL e ATS, affinché possano essere realizzate. Questa fase è stata avviata da poco, e si concluderà a marzo 2026.”

*Il progetto è stato realizzato in collaborazione con l’Alleanza per la Riforma delle Cure Primarie e la Campagna PHC Now or Never, e sostenuto dalla Fondazione Banca Popolare di Milano.

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Stefania Cifani

Giornalista scientifica e Medical writer

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