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Assistenza ai cronici, l’esperienza lombarda e il ruolo della medicina generale

  • Alessandro Visca
  • Sanità

A tre anni dal varo della riforma dell’assistenza ai pazienti cronici e fragili della Regione Lombardia un volume fa un primo bilancio di un’esperienza che tocca un punto nodale per l’intero sistema sanitario e per il ruolo professionale del MMG nella sanità dei prossimi anni.

Il volume “La presa in carico della cronicità e fragilità in Lombardia: nascita, evoluzione ed esiti di una riforma” è firmato dal dottor Giuseppe Belleri, Medico di medicina generale, ricercatore e docente alla scuola di formazione in Medicina Generale di Brescia.

All’autore abbiamo rivolto qualche domanda sulle tematiche affrontate nel libro.

Dottor Belleri, Lei ha recentemente pubblicato un libro in cui si traccia un primo bilancio della legge della Regione Lombardia sulla Presa in Carico (PiC) della Cronicità e fragilità approvata nel 2017. Si tratta di una tematica cruciale per tutto il nostro Servizio Sanitario Nazionale e in particolare per il futuro della Medicina Generale. Quali sono le indicazioni più importanti che emergono da questi primi anni di esperienza della riforma lombarda?

La PiC lombarda proponeva di “appaltare” la cura dei cronici ai cosiddetti Gestori accreditati, ruolo che poteva essere assunto sia dalle Cooperative di MMG sia da Aziende ospedaliere, pubbliche o private, in una cornice di quasi mercato amministrato. In pratica la concorrenza tra Gestori ospedalieri e MMG in Coop doveva migliorare l’organizzazione e gli esiti clinici delle patologie, sulla base della libera scelta dei pazienti, che potevano migrare dall’assistenza primaria territoriale alla presa in carico dei Clinical Manager ospedalieri. Gli “arruolamenti” hanno però dimostrato lo scarso interesse dei pazienti per la competizione tra MMG e specialisti nosocomiali: complessivamente al gennaio 2020 meno del 10% degli oltre 3 milioni di cronici lombardi ha accettato la PiC e di costoro solo 5% ha optato per una gestione ospedaliera abbandonando i generalisti, che per parte loro hanno arruolato il restante 95%. Un esito probabilmente inatteso per i decisori regionali che ha messo in discussione il quasi mercato a concorrenza verticale, cioè tra assistenza primaria e di II livello, nella cura delle condizioni croniche. La cronicità più che competizione tra comparti del SSR richiede integrazione e coordinamento verticale tra professionisti I e II livello, come ha messo in evidenza anche l’emergenza infettiva.

L’emergenza sanitaria legata alla pandemia ha riportato in primo piano il ruolo fondamentale del MMG e dell’assistenza sul territorio per far fronte ai bisogni di salute della popolazione. Ritiene che questo evento possa determinare un nuovo orientamento nella programmazione futura della sanità pubblica?

Il PNRR recentemente approvato dal parlamento italiano ridisegna in modo radicale gli assetti organizzativi della sanità territoriale, introducendo su tutto il territorio le cosiddette Case della Comunità dopo che le norme sulle omologhe Case della Salute, risalenti al 2007, sono state disattese in buona parte delle regioni. È fuori di dubbio che una solida rete organizzativa extra ospedaliera avrebbe risposto in modo più efficace e appropriato all’emergenza pandemica, come del resto è accaduto nelle zone in cui le Case della salute sono più radicate; le Case della Comunità potranno far fronte anche alla “pandemia” di condizioni croniche, con un’appropriata assistenza di prossimità che la rete ospedaliera non può certo garantire, impegnata com’è sul fronte degli interventi tecnologici e specialistici per eventi acuti, come ha dimostrato il Covid-19. La carenza di un network di interfaccia e collegamento tra assistenza primaria e strutture ospedaliere si è fatta sentire soprattutto nella prima parte dell’ondata pandemica, quando ancora le USCA non erano a regime, e sarà dirimente anche per la revisione e il rilancio della PiC in chiave non competitiva ma di governance, dopo l’impasse del 2020. Nel secondo semestre dell’anno all’avvio del PNRR si sovrapporrà la revisione della riforma Maroni – la LR 23 del 2015 “scaduta” a fine 2020 – che non potrà non integrarsi con il ridisegno della rete d’offerta territoriale del Recovery.

Lei affianca alla sua attività clinica quella di animatore di formazione SIMG, ricercatore e docente alla scuola di formazione in Medicina Generale di Brescia. Dal suo punto di vista quali dovrebbero essere i punti cardine per un rilancio della professione del Medico di Medicina Generale?

Il futuro della medicina generale è legato alla promozione di quella Comunità di Pratica, formazione, ricerca e apprendimento, che purtroppo in Italia è in ritardo rispetto al resto dell’Unione Europea, e al rilancio dell’organizzazione territoriale del PNRR. Emblematica è a questo proposito la vicenda del Corso di Formazione Specifica in MG che, proprio per le carenze della Comunità professionale, non ha ancora conseguito gli standard qualitativi, il riconoscimento economico e lo status specialistico che i colleghi in formazione si attendono. Tuttavia non è il passaggio alle aule Universitarie e men che meno con lezioni frontali che potrà garantire la qualità della formazione; solo l’esperienza di full immersion nel tirocinio, a contatto con le pratiche della comunità sotto la guida di un valido tutor, può guidare il medico in formazione lungo il percorso professionalizzante. Naturalmente anche la formazione permanente, in particolare quella sul campo e con il metodo dell’audit, è un punto chiave del rilancio della MG a condizione però che non resti isolata ma si traduca verifica empirica delle ricadute comportamentali tra i partecipanti agli eventi, in relazione agli obiettivi educativi perseguiti. Per la valutazione a distanza dell’apprendimento avranno sempre più importanza i sistemi informativi di raccolta ed elaborazione dati delle decisioni e il confronto tra pari sugli esiti. La MG è uno snodo informativo, in cui vengono generate e registrate un numero impressionante di informazioni, depositate in una ricchissima banca dati dispersa sul territorio che può e deve essere “sfruttata”.

Infine, tornando sul tema dell’assistenza ai pazienti cronici e fragili come andrebbe orientata l’organizzazione dell’assistenza e quali ruoli attribuire all’assistenza sul territorio e a quella ospedaliera?

L’esperienza della PiC ha dimostrato che sono stati i pazienti per primi a diffidare della managed competition che proponeva loro una sorta di aut/aut tra la conferma dello status quo e l’implicita ricusazione del MMG per delegare una porzione della propria salute ad un professionista concorrente ed alternativo. Al contrario la strada maestra è quella del coordinamento e della collaborazione tra medici delle cure primarie e specialisti ospedalieri che si alternano alla cura dei cronici; tra l’altro questo modello di integrazione professionale è iscritto nella condivisione dei cosiddetti Percorsi Diagnostico Terapeutici ed Assistenziali, attivi in tutta la regione e promossi paradossalmente dalla stessa PiC per definire ruoli e relazioni tra professionisti. Su questa base culturale comune si sono sviluppati progetti locali di Governo Clinico delle patologie croniche, come quello dell’ATS di Brescia iniziato nel 2005, che ha coinvolto l’80% dei generalisti e dei pazienti della provincia. Si è trattato di una sorta di audit permanente sull’attività clinico-assistenziale del MMG che ha documentato quantità di prestazioni e qualità della presa in carico degli assistiti. Senza particolari incombenze aggiuntive rispetto alla routine assistenziale il Governo Clinico ha monitorato un ampio set di indicatori di processo, esito e salute di centinaia di migliaia di pazienti per oltre un decennio. Purtroppo questo progetto, nonostante i significativi esiti, è stato abbandonato nel 2018 per lasciare spazio alla PiC, i cui risultati sono stati invece deludenti e contro-intuitivi rispetto alle attese alimentate dal programma.

Alessandro Visca
Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.