Demenze, un’epidemia sociale che preoccupa gli italiani
Declino cognitivo e demenza preoccupano 9 italiani su 10, che temono per se stessi e per i propri cari la perdita di autonomia, l’isolamento e il carico emotivo ed economico sul nucleo familiare, che queste patologie comportano. Lo rivela una recente indagine realizzata dall’istituto di ricerche ‘EMG Different’ su un campione di 1.000 italiani tra i 24 e i 75 anni.
La ricerca presentata a Milano nel corso dell’evento “Declino cognitivo e demenza: quanto ne sappiamo, cosa stiamo facendo e quale impatto sulla società e sul Servizio Sanitario Nazionale”, promosso da Neopharmed Gentili nel mese dedicato all’Alzheimer, rivela anche un bisogno di maggiori informazioni su questo tema: quasi 1 italiano su 2 (46%) dichiara di non sapere che la prevenzione è un’alleata per contrastare il declino cognitivo, e solo il 29% è consapevole della possibilità di intervenire sul decorso della malattia con trattamenti adeguati.
Le cifre di una patologia di grande impatto sulla società italiana
In Italia il declino cognitivo e la demenza interessano 2 milioni di pazienti e 4 milioni di caregiver. Si stima che oltre 1 milione di persone soffrano di demenza (di cui 600.000 con malattia di Alzheimer) e altre 900mila siano affette da declino cognitivo lieve, che in circa il 50% dei casi progredisce in demenza nell’arco di 3 anni.
Camillo Marra, presidente SINDem, Associazione autonoma aderente alla SIN per le demenze, spiega:
con l’aumento dell’aspettativa di vita, la demenza è destinata ad acquisire sempre più rilevanza: oggi ne soffre il 7% della popolazione over-60 e la percentuale sale al 30% negli over-85. Intervenire preventivamente nelle forme di precliniche di demenza è cruciale per contrastare la progressione della malattia”,
Il valore della prevenzione
“Un intervento su tutti i fattori di rischio modificabili, tra i 40 e i 60 anni, potrebbe ridurre del 40% l’evoluzione del declino cognitivo lieve in demenza. – aggiunge Marra – Ciò vuol dire agire su fumo, alcol, sedentarietà, diabete, ipertensione, dislipidemie, ma anche sugli aspetti legati alla socialità. L’ipovisione e la perdita di udito non riconosciute in età adulta sono altri fattori di rischio da non sottovalutare. Ma la vera prevenzione inizia sui banchi di scuola riducendo il tasso di abbandono scolastico per agire su un fattore chiave di protezione rappresentato dal livello culturale: più siamo istruiti, infatti, più siamo in grado di alimentare la riserva cognitiva per quando saremo anziani. Anche sul fronte terapeutico, più si interviene in fase precoce, anche limitatamente ai trattamenti oggi disponibili, meglio si riesce a modificare il decorso della malattia”.
Non sottovalutare il declino cognitivo
Alessandro Pirani, rappresentante SIMG – Tavolo permanente Demenze, Ministero della Salute precisa:
Il declino cognitivo lieve è un quadro clinico da attenzionare al massimo perché rappresenta la fase della diagnosi precoce e coinvolge in prima persona il medico di medicina generale.”
“Il disturbo delle capacità di memoria – aggiunge Pirani – è il segnale più eclatante, ma spesso viene ignorato o sminuito a causa dello stigma che lo ‘relega’ a un normale aspetto dell’invecchiamento. Altri campanelli d’allarme sono la comparsa di depressione, cambiamenti del carattere, la tendenza a perdere il filo del discorso. Inoltre, nella progressione della malattia, compaiono i disturbi del comportamento: insonnia, oppositività (il paziente non mangia, non si lascia lavare), aggressività fisica e verbale. La stabilizzazione di questi sintomi, che causano forte stress emotivo nei familiari, è un obiettivo assistenziale prioritario e decisivo ai fini della gestione del paziente al domicilio”.
Il peso dell’assistenza sulle famiglie
Un altro tema cruciale è il peso dell’assistenza alle persone con una forma di demenza che ricade in gran parte sulle famiglie. Paolo Sciattella, farmaco-economista dell’Università degli Studi Tor Vergata di Roma, conferma:
attualmente, il 64% dei pazienti con demenza non risulta in carico presso strutture sociosanitarie. Un dato che dà la misura dell’onere della malattia sulle famiglie dei pazienti, non solo sul piano assistenziale ma anche economico: circa il 63% dei costi per la gestione e il trattamento dei pazienti è completamente a carico del paziente (spesa out-of-pocket), pari a 14,8 miliardi di euro su una spesa totale annua complessiva di 23,6 miliardi di euro. A ciò si aggiungano i costi indiretti legati alla perdita di produttività dei caregiver quantificati in 4,9 miliardi di euro, che interessano prevalentemente i pazienti non istituzionalizzati”.
“Assistere una persona con demenza è un impegno gravoso – aggiunge Donatella Oliosi, Presidente Associazione Di.A.N.A. onlus – Associazione diritti non autosufficienti – che ricade quasi per intero sul nucleo familiare, sul piano psicofisico, sociale ed economico, ed è comprensibile che questo sia uno degli aspetti che più preoccupa gli italiani rispetto all’eventualità che la malattia possa colpire un proprio caro. Questo perché, pur rientrando nella competenza del Servizio sanitario nazionale in quanto malati cronici, le famiglie non ricevono sufficienti prestazioni e adeguati sostegni dai servizi sanitari territoriali: in molti casi i centri diurni rappresentano un sollievo per le famiglie, ma andrebbero dimensionati sul reale fabbisogno, così come dovrebbe essere garantito in maniera uniforme l’accesso in struttura per quei pazienti che non possono più essere assistiti al domicilio. I malati e le famiglie devono essere accolti e accompagnati nella presa in carico di competenza del Servizio sanitario nazionale”.