Malattia renale cronica, l’approccio terapeutico al paziente anziano fragile
Mariacristina Gregorini
Segretario SIN; SC Nefrologia e Dialisi, Dipartimento Medicina Specialistica Azienda USL-IRCCS Reggio Emilia
In un paziente anziano fragile, la dialisi potrebbe avere un significativo impatto sulla qualità di vita. La valutazione del rischio di decesso a breve termine, entro 6 mesi dall’inizio del trattamento dialitico, offre la possibilità di valutare il percorso terapeutico più adeguato per il singolo paziente. Il clinico dovrebbe prendere in considerazione anche una terapia conservativa non aggressiva, personalizzata, incentrata sui bisogni individuali, e condivisa con il malato e i suoi familiari.
La malattia renale cronica (MRC) come è noto è un’importante causa di morbilità e mortalità, caratterizzata da un decorso inizialmente asintomatico, spesso per lungo tempo, seguito, nella fase terminale (uremia), da sintomi spesso pesanti.
Il progressivo invecchiamento della popolazione ha determinato un aumento importante delle patologie cronico-degenerative; tra queste la MRC, con conseguente incremento della necessità di dialisi nei pazienti di età superiore a 75 anni, che oggi rappresentano circa il 40% dei nuovi ingressi ogni anno, con una quota rilevante di ultraottantenni fra gli incidenti in dialisi [1, 2]. Questi pazienti sono spesso fragili, in quanto anziani o grandi anziani con multiple comorbidità, in molti casi sopravvissuti, oltre che a malattie croniche degenerative (MRC, cardiopatie, diabete mellito, panvasculopatia), anche ad eventi acuti e a procedure interventistiche complessi, considerati incompatibili con la sopravvivenza fino a pochi anni fa.
Nei pazienti emodializzati la fragilità è frequente, compare precocemente e rappresenta un fattore di rischio indipendente per ospedalizzazione e morte per tutte le cause [3, 4, 5]; infatti, nei pazienti fragili il trattamento dialitico è spesso associato alla rapida perdita dell’autonomia funzionale, con frequenti ospedalizzazioni e ridotta sopravvivenza. Peraltro, lo studio delle cosiddette “traiettorie di malattia” dimostra che la stessa MRC in fase avanzata (stadio V) ma non ancora in dialisi, ha spesso un andamento peggiore, in termini prognostici, rispetto a quello di alcuni tumori di organi solidi [6].
Strumenti di valutazione del rischio di decesso
Per identificare i soggetti a più alto rischio di mortalità a breve termine, entro 6 mesi dall’inizio del trattamento dialitico, si possono usare diversi modelli prognostici basati sulla presenza di comorbidità, tra cui quelli storici, come quello proposto da Cécile Couchoud, del French Renal Epidemiology and lnformation Network (REIN) Registry [7], ed il Charlson Comorbidity Index (CCI) [8], da utilizzare come supporto alla valutazione clinica complessiva del paziente. Lo studio REIN ha analizzato una coorte di 2.500 pazienti di età superiore a 75 anni, valutando 9 fattori di rischio presenti o meno all’inizio del trattamento dialitico (punteggio dal a 3 con un totale variabile da 0 a 16), e fornendo una stima del rischio di morte nel breve periodo (TABELLA 1).
Tabella 1 Fattori di rischio di mortalità a 6 mesi nei pazienti incidenti in dialisi
Il tasso medio di mortalità a 6 mesi era del 19% e variava, in funzione del punteggio assegnato, da un minimo dell’8% nei pazienti a più basso rischio (punteggio 0) ad un massimo del 70% nei pazienti a più alto rischio (punteggio ≥9) [7].
Il Charlson Comorbidity lndex (CCI), utilizzato per molte patologie croniche, è stato validato anche per i pazienti incidenti e prevalenti in dialisi cronica: un punteggio >8 è considerato predittivo di elevata mortalità a 12 mesi (TABELLA 2).
Tabella 2 Indice di Charlson per la valutazione delle comorbidità
Il Documento Condiviso tra Società Italiana di Cure Palliative e Società Italiana di Nefrologia “Le Cure Palliative nelle persone con malattia renale cronica avanzata”, pubblicato nel 2016, ha confermato come fattori prognostici sfavorevoli l’età maggiore di 75 anni, il tipo e la severità delle comorbidità, la malnutrizione, la grave compromissione cognitiva, la ridotta autonomia funzionale e le frequenti ospedalizzazioni. [9]
Con l’aumento significativo della fragilità è andata crescendo anche l’attenzione verso una valutazione globale del singolo paziente prima di proporre il trattamento dialitico, soprattutto quando sia ipotizzabile una prognosi infausta a breve termine. Per i pazienti più fragili, infatti, la dialisi è gravata da una elevata mortalità a breve termine, ma soprattutto da una qualità di vita pesantemente compromessa, con il tempo residuo libero dal trattamento spesso trascorso in ospedale per complicanze [10]; nell’ultimo mese di vita questi pazienti subiscono un numero di ospedalizzazioni, di manovre invasive e di ricoveri in terapia intensiva non paragonabile a quello di altri malati, compresi quelli affetti da cancro [6], tanto che, secondo Edwina Brown (nefrologa di fama internazionale, grande esperta di terapia conservativa, cure palliative e dialisi peritoneale), in certe situazioni “tenere in dialisi pazienti anziani gravemente comorbidi equivale a posticiparne la morte, più che a salvarne la vita” [11].
Approccio terapeutico
Pertanto, oggi è doveroso superare il vecchio paradigma “uremia =necessità di dialisi”, considerando sempre, nei pazienti fragili, l’opportunità di non iniziare la dialisi, ovvero di poterla sospendere proseguendo la terapia conservativa massimale (TCM), definita dagli anglosassoni anche “terapia renale non aggressiva” [12]; non si tratta di una “non terapia” e quindi di abbandono, ma anzi di una terapia medica veramente personalizzata ed incentrata sui bisogni del singolo paziente [13], per ottenere il controllo dei sintomi ed il maggior benessere possibile, il più a lungo possibile.
La TCM si basa sulla terapia nutrizionale personalizzata con un apporto proteico ridotto [14] e utilizza tutti i farmaci normalmente impiegati per il trattamento della MRC avanzata, con particolare attenzione al mantenimento del compenso emodinamico, allo stato di nutrizione, al trattamento dell’anemia e della depressione, introducendo le cure palliative già per il controllo dei sintomi in fase precoce.
È comunque fondamentale che il percorso di cura sia ampiamente condiviso con il paziente e i suoi familiari [15], cercando di pianificare per tempo le scelte terapeutiche relative alla fase terminale della MRC: inizio o meno della dialisi, possibile sospensione del trattamento in determinate condizioni cliniche [18,19].
Quando la scelta terapeutica sembra offrire sicuri benefici e gli obiettivi del paziente sono chiari non esiste alcun dilemma etico; ma se gli obiettivi non sono realistici e i rischi, verosimilmente, superano nettamente i vantaggi, può verificarsi un conflitto tra la posizione del medico e quella del paziente e/o dei suoi familiari.
In questi casi è indicato proporre la dialisi pro-tempore per poter verificare la reale tolleranza al trattamento,che verrà proseguito se tollerato o sospeso in caso di peggioramento della situazione.
La decisione di sottoporre un paziente ad una terapia “salvavita”, ma invalidante deve basarsi non solo su criteri clinici e scientifici, ma anche su valutazioni personali del paziente e dei suoi cari, su giudizi di valore per definire quale sia la qualità di vita degna di essere vissuta; ed è il malato, tutte le volte che è in grado di esprimersi, il titolare delle scelte rispetto alla qualità della vita per lui accettabile. Infatti, la relazione tra malattia e qualità di vita è estremamente soggettiva e dinamica: ciò che è importante per una persona, in un determinato momento, può non esserlo per un’altra o in un altro contesto di vita. Anche il risultato delle cure, nei pazienti fragili, non deve essere valutato come miglioramento o normalizzazione di parametri, ma piuttosto in termini di controllo dei sintomi e di benessere complessivo, cercando di ottenere la stabilizzazione del quadro clinico il più a lungo possibile e garantendo un’assistenza globale al malato e ai familiari anche nella fase finale della vita, possibilmente a domicilio.
La comunicazione inerente le scelte terapeutiche rispetto alla terapia conservativa massimale, primaria o successiva alla sospensione del trattamento dialitico, deve essere particolarmente curata, gestita con professionalità, sensibilità e grande rispetto per le volontà, i tempi e gli atteggiamenti delle persone coinvolte. È necessario documentare sempre le decisioni condivise, che andranno regolarmente riviste in occasione delle visite ambulatoriali e comunicate sempre a tutto il team curante.
• ADVANCE CARE PLANNING
Questo processo rappresenta l’Advance Care Planning (ACP), cioè il percorso di condivisione anticipata delle cure come parte integrante dell’intero percorso terapeutico [19] che coinvolge il paziente con i suoi familiari e il team dei curanti, compreso naturalmente il Medico di Medicina Generale (MMG) che riveste un ruolo fondamentale, per stabilire gli obiettivi di cura e l’intensità dell’assistenza medica, rafforzando la relazione terapeutica.
L’Advance Care Planning, previsto dalla Legge 219 – 22/12/2017 all’art. 4 [20], in ambito nefrologico prevede [21, 22]:
- la cura attiva totale del paziente e della famiglia, la gestione del dolore fisico e delle implicazioni psicologiche, spirituali e culturali derivanti dallo stato di malattia;
- il sostegno professionale per decidere sull’opportunità di iniziare o sospendere il trattamento dialitico;
- il coinvolgimento nella discussione sulle cure di fine vita per avere una morte dignitosa;
- la scelta con la famiglia e il paziente del luogo della morte;
- la strutturazione dell’intero percorso di cure palliative, sia in ospedale che a domicilio.
La sua attuazione richiede una formazione mirata del personale sanitario, per la promozione delle competenze relazionali con particolare attenzione alla “comunicazione difficile” riguardante la prognosi e le decisioni di fine vita, nel rispetto dell’autodeterminazione del malato [23,24,25].
Le informazioni sul quadro clinico devono essere sempre chiare e comprensibili, il linguaggio semplice e accessibile, perché solo una comunicazione aperta e rispettosa delle preoccupazioni e dei sentimenti del paziente e dei familiari [26,27] rende possibile e funzionale questo approccio globale che include anche le cure palliative: non come esclusive del fine vita, ma come cure da affiancare ai trattamenti ordinari, commisurate ai bisogni dinamici del malato, lungo tutto il percorso di cura
Considerazioni conclusive
L’approccio palliativo è dunque auspicabile (e applicabile) nell’insufficienza renale terminale così come in tutte le patologie cronico-degenerative, già in una fase precoce, secondo il moderno concetto di cure palliative simultanee [28].
La realizzazione di questo progetto di cura richiede il coinvolgimento attivo dei Medici di Medicina Generale, oltre che delle altre figure professionali territoriali, in un programma integrato di gestione della cronicità [29], in cui il ruolo del MMG è uno snodo fondamentale, tanto in termini organizzativi che psicologici per il paziente e la sua famiglia.
Infine, l’aspetto cruciale non è solo se iniziare o sospendere la dialisi, ma chiedersi sempre quale possa essere la terapia migliore per il nostro paziente in quel momento della sua vita, con un’unica irrinunciabile certezza: che il paziente si aspetta da noi di non essere abbandonato e che dobbiamo esserci sempre, fino alla fine.
Ricordando, con le parole di Carlo Maria Martini, che “le nuove tecnologie che permettono interventi sempre più efficaci sul corpo umano richiedono un supplemento di saggezza”, poiché “per stabilire se un intervento medico sia appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti” [30].
Referenze bibliografiche
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