Obesità, l’inerzia terapeutica e il ruolo del MMG
a cura di
Luca Busetto
Dipartimento di Medicina, Università degli Studi di Padova
La prevalenza del sovrappeso e dell’obesità è in continuo aumento in tutte le regioni del mondo, raggiungendo livelli pandemici. Secondo i dati epidemiologici del Global Burden of Diseases (GBD), un totale di 107,7 milioni di bambini e 603,7 milioni di adulti erano affetti nel 2015 da obesità a livello globale [1]. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, più del 50% degli uomini e delle donne europee erano in sovrappeso nel 2008 e circa il 23% delle donne e il 20% dei maschi erano affetti da obesità [2]. In Italia, secondo i dati ISTAT, più di 23 milioni di adulti (45,9% della popolazione) erano affetti da sovrappeso o obesità nel 2016, e tra questi 5,2 milioni (10,4% della popolazione) erano affetti da obesità [3].
Introduzione
L’aumento continuo nella prevalenza dell’obesità ha pesanti ricadute socio-sanitarie. Sovrappeso e obesità sono responsabili, direttamente o indirettamente, a livello globale, di 4 milioni di decessi annui, la maggior parte dei quali legati a malattie cardiovascolari [1]. L’eccesso di tessuto adiposo si associa ad un maggior rischio per una serie di malattie croniche ad alto impatto socio-sanitario, come diabete, malattie cardiovascolari, problemi respiratori, numerosi tipi di neoplasie maligne e problemi osteoarticolari [4].
Le conseguenze sanitarie e sociali sono evidenti. Per queste ragioni, la prevenzione ed il trattamento della malattia obesità dovrebbero costituire una delle priorità pubbliche per il mantenimento di un buono stato di salute nella popolazione. Tuttavia, molti sistemi sanitari, sia pubblici che privati, non offrono ancora per il paziente con obesità lo stesso livello di assistenza che viene erogato per altre malattie croniche (come il cancro, il diabete, le malattie cardiovascolari e le malattie reumatiche) [5].
In Italia, l’accesso all’educazione terapeutica e a programmi intensivi di modificazione dello stile di vita è limitato nel Sistema sanitario nazionale per il paziente con obesità, scarsa è l’offerta pubblica di programmi di terapia cognitivo-comportamentale, nessuno dei farmaci disponibili con specifica indicazione nella terapia dell’obesità è rimborsato dal Sistema sanitario nazionale, e infine l’accesso alla terapia chirurgica dell’obesità, secondo percorsi terapeutici che garantiscono un follow-up multidisciplinare, è molto difficile soprattutto in alcune aree del paese.
Questa disparità di trattamento (stigma clinico), difficilmente giustificabile dal punto di vista etico, può essere considerata parte dello stigma che la nostra società ha nei confronti della persona con obesità.
Obesità e stigma
Le cause dello stigma contro l’obesità, ed in particolare le cause dello stigma clinico, sono complesse ed influenzate da aspetti di ordine socio-economico, culturale e politico. Tuttavia, la causa probabilmente più profonda e più pervasiva dello stigma legato al peso sta nella persistenza di una narrazione che considera il peso corporeo interamente controllabile dall’individuo mediante opportune scelte comportamentali e che considera quindi il sovrappeso e l’obesità come la conseguenza diretta di comportamenti individuali inadeguati ed improntati a pigrizia, ghiottoneria o simili [6].
Secondo questa narrazione l’obesità sarebbe quindi reversibile “convincendo” il paziente a seguire comportamenti individuali più sani e virtuosi (giudizio morale). Questa narrazione non è supportata da evidenze scientifiche e contrasta con le moderne evidenze che delineano l’obesità come una malattia cronica complessa, risultato di una interazione tra molteplici cause ambientali, genetiche ed epigenetiche, e sostenuta da alterazioni nei meccanismi neuroendocrini di regolazione del peso corporeo.
Nel paziente con obesità che tenta di perdere peso si attivano inoltre potenti meccanismi biologici che tendono ad opporsi al calo di peso e che sono la causa del frequente rebound ponderale, classicamente attribuito alla scarsa forza di volontà del paziente [6].
L’essere esposti ad esperienze di stigmatizzazione e discriminazione legate al peso è per i pazienti con obesità un fattore di rischio per disturbi mentali probabilmente più importante che l’obesità stessa. L’essere stato esposto allo stigma costituisce fattore di rischio per insorgenza di sintomi depressivi, alti livelli di ansia, bassa autostima, stress ed abuso di sostanze. Lo stigma è anche associato ad un maggior rischio di alterazioni del comportamento alimentare, come il disturbo da alimentazione incontrollata e la tendenza a sovra-alimentarsi in risposta alle emozioni. Paradossalmente, studi sperimentali hanno dimostrato che l’esposizione allo stigma legato al peso può portare ad un aumento dell’introito di cibo, a una riduzione dei livelli di attività fisica e una ulteriore tendenza ad aumentare di peso, passando dal sovrappeso all’obesità conclamata [6] (FIGURA).
La cascata dello stigma
Secondo una narrazione persistente e semplicistica, le persone possono facilmente controllare il proprio peso corporeo con la sola forza della volontà, adottando comportamenti appropriati. L’obesità quindi appare come una condizione autoindotta con una soluzione molto semplice (“mangia di meno e muoviti di più”). Questa persistente narrazione costituisce la radice profonda della stigmatizzazione nei confronti delle persone affette da obesità in tutti gli ambienti sociali (stigma personale e sociale). Inoltre, questa narrazione crea una chiara discrepanza tra il modo con cui l’obesità è affrontata nel Sistema Sanitario ed il modo in cui vengono trattate altre malattie croniche non-trasmissibili (stigma clinico). La combinazione di stigma personale, sociale e clinico aumenta le sofferenze individuali e compromette la prevenzione ed il trattamento dell’obesità.
Le persone con obesità sperimentano stigmatizzazione e discriminazione legate al peso in tutti gli ambiti della vita quotidiana, inclusi la famiglia, la scuola e il luogo di lavoro. Purtroppo lo stigma nei confronti dell’obesità è presente anche nei professionisti sanitari, inclusi i medici di famiglia, gli endocrinologi, i cardiologi, gli infermieri, i dietisti, gli psicologi, gli studenti di medicina e anche i professionisti coinvolti direttamente nella ricerca o nella cura dell’obesità [6].
Studi suggeriscono che i medici tendono a dedicare meno tempo durante le visite e sono meno propensi a fornire consigli di ordine sanitario ai loro pazienti con obesità rispetto a quanto fanno nei loro pazienti più magri [6]. D’altro lato, i pazienti che hanno subito episodi di discriminazione legati al peso in ambito sanitario tendono ad evitare ulteriori contatti e visite, riducendo il loro accesso alle cure [6].
Inerzia terapeutica
Considerare l’obesità come una condizione autoindotta facilmente reversibile può portare anche ad una sovrastima da parte dei professionisti sanitari dell’efficacia di interventi terapeutici basati solamente sull’educazione e la modificazione dello stile di vita e ad un certo grado di inerzia terapeutica. Se il peso corporeo è sotto il controllo della volontà del paziente, la cura dell’obesità consisterà semplicemente nello spiegare al paziente la necessità di “mangiare di meno e muoversi di più” e quindi l’implementazione di interventi più complessi (e più costosi) sarà considerata a priori non necessaria [6].
Una recente survey internazionale, che ha coinvolto sia persone con obesità sia medici che curano queste persone (studio ACTION-IO), ha dimostrato una chiara sovrastima in entrambi i campi della efficacia degli interventi basati semplicemente su consigli comportamentali semplici e paternalistici, a spese di altri interventi (programmi strutturati di modificazione dello stile di vita, terapia cognitivo-comportamentale, farmaci anti-obesità, chirurgia dell’obesità) la cui maggiore efficacia è chiaramente dimostrata da evidenze cliniche e trials clinici controllati e randomizzati [7].
Facendo riferimento ai soli dati dei medici italiani presenti nella survey internazionale (302 medici dei quali il 56% considerava sé stesso esperto nel management dell’obesità), la grande maggioranza degli intervistati assegnava una efficacia elevata ad un generico miglioramento dell’alimentazione (80% dei medici) o ad un generico aumento dell’attività fisica (76%), mentre solo una minoranza valutava come maggiore l’efficacia della terapia comportamentale (46%), della terapia farmacologica (14%) o della terapia chirurgica (37%) [8].
Le conseguenze di questa visione semplicistica e superficiale del problema sono ovviamente una minor propensione ad utilizzare terapie più avanzate e la continua ripetizione di interventi educazionali di breve termine che il paziente periodicamente affronta attraverso cicli ripetuti di calo e recupero di peso. Questo quadro evidenzia una netta discrepanza tra il modo in cui viene affrontata l’obesità e il modo con cui vengono trattate altre malattie croniche non trasmissibili. Le scelte ed i comportamenti personali sono importanti per l’insorgenza ed il progressivo aggravarsi dell’obesità allo stesso modo di quanto lo sono per l’insorgenza e l’aggravamento di molte altre malattie croniche non trasmissibili (diabete tipo 2, malattie cardiovascolari, malattia polmonare cronica ostruttiva) e di molte forme di cancro. Tuttavia, solo per l’obesità noi continuiamo a pensare che la prevenzione ed il trattamento debbano essere basati sostanzialmente solo sulla forza di volontà del paziente [6].
La tendenza alla sovrastima dell’efficacia degli interventi di modificazione dello stile di vita e la riluttanza ad utilizzare terapie più intensive sono in parte confermate da una recente survey condotta tra gli iscritti all’Associazione Medici Endocrinologi (AME) in Italia [9]. La survey è significativa in quanto si sono ottenute risposte da 542 iscritti su 2.248 (24,1%).
La maggior parte dei pazienti affetti da sovrappeso o obesità si reca a visita endocrinologica per ragioni diverse dall’eccesso ponderale. Tuttavia, ben 1 endocrinologo su 5 riferisce di affrontare solo saltuariamente (25% o meno dei casi) il problema obesità in questi pazienti, mentre solo 1 su 3 lo affronta con costanza. Nel caso il problema obesità venga affrontato, la maggior parte degli endocrinologi (57,4%) preferisce non gestirlo personalmente, ma riferisce il paziente ad un dietista/nutrizionista o a un centro specialistico.
La prescrizione dei farmaci anti-obesità oggi disponibili rimane molto bassa (liraglutide nel 10% dei casi, orlistat e naltrexone/bupropione solo sporadicamente). Le ragioni per cui la prescrizione dei farmaci anti-obesità è così poco frequente anche tra medici che per formazione dovrebbero essere esperti della materia sono senz’altro varie. La maggior parte degli endocrinologi riporta tra le barriere all’uso dei farmaci il loro costo (71,9% dei partecipanti alla survey), gli effetti collaterali (34,6%), la limitata persistenza d’effetto del trattamento farmacologico (25,6%) e la riluttanza da parte dei pazienti all’uso dei farmaci (21,9%). Tuttavia, almeno in parte, questa così bassa tendenza da parte dell’endocrinologo all’uso dei farmaci anti-obesità può essere spiegata con lo stigma clinico, l’eccessiva fiducia nella efficacia degli interventi non-farmacologici e non chirurgici, e l’inerzia terapeutica.
Il ruolo critico del Medico di Medicina Generale
Considerando i dati epidemiologici accennati nell’introduzione ed il fatto che il primo contatto del paziente con obesità per qualsiasi problema sanitario è il Medico di Medicina Generale, è evidente come la medicina primaria possa giocare un ruolo critico nell’auspicato miglioramento delle modalità con cui il nostro Sistema Sanitario nel suo complesso affronta il problema del management a lungo termine di questa patologia.
L’associazione europea per lo studio dell’obesità (European Association for the Study of Obesity – EASO) ha proprio per questo motivo pubblicato un documento di indirizzo pratico sul trattamento dell’obesità a livello di cure primarie [10], stressando in modo particolare l’importanza di una comunicazione medico-paziente aperta e non-stigmatizzante. Il primo punto critico nel percorso di cura è affrontare il problema con il paziente.
I dati italiani dello studio ACTION-IO dimostrano che solo il 64% dei pazienti con obesità intervistati ha discusso il problema del peso con il proprio medico negli ultimi 5 anni [8]. Questa scarsa propensione da parte del medico ad affrontare il problema del peso con i pazienti può essere in parte legata al fatto che la maggior parte dei medici intervistati pensa che il paziente con obesità non sia motivato a perdere peso (77%) o che non sia interessato a perdere peso (77%). Ciò è in netto contrasto con quanto riportato dai pazienti intervistati, che solo in netta minoranza si dichiarano non motivati (15%) o non interessati (4%) a perdere peso [8].
Ancora una volta sembra qui esserci in parte una traccia di stigma clinico nei confronti dell’obesità, visto che certamente nessun medico esiterebbe a parlare al paziente di controllo della glicemia o di controllo della pressione arteriosa in caso di diagnosi di diabete o ipertensione arteriosa.
Qualora si decida di affrontare il problema, l’attenzione va posta all’uso di termini e modalità comunicative non stigmatizzanti. Il documento EASO [10] fissa l’attenzione su alcuni punti fondamentali per migliorare la conversazione e controllare le proprie eventuali (frequenti) attitudini negative:
- Accogliere il paziente in studio con empatia e senza pregiudizi negativi (sia verbali che non verbali).
- Ricordare che le persone con obesità sono cronicamente esposte a esperienze negative di stigmatizzazione legata al peso da parte di professionisti sanitari.
- Riconoscere che l’obesità è una malattia ad eziologia complessa e multifattoriale e che questa condizione non è completamente sotto il controllo della volontà del paziente.
- Fare attenzione a non usare termini o espressioni inappropriate o offensive.
- Chiedere al paziente se ha voglia di parlare del proprio peso prima di iniziare una discussione sull’obesità, soprattutto se il paziente non è venuto a visita espressamente per questo motivo.
- Parlare utilizzando termini che non identifichino la persona con la propria malattia: meglio dire “paziente con obesità” che “obeso”.
Una volta posto sul tavolo il problema, al Medico di Medicina Generale spetta l’inquadramento iniziale del paziente [11]. Tale inquadramento deve comprendere una valutazione antropometrica (comprensiva di altezza, peso e circonferenza della vita) e una valutazione clinico-laboratoristica per la diagnosi di eventuali complicanze [10].
La fase di inquadramento diagnostico è funzionale alla scelta dell’indirizzo terapeutico, che deve essere discusso con il paziente e scelto in base a entità e distribuzione dell’eccesso ponderale, complicanze ed età [11]. Il trattamento dei pazienti con sovrappeso o obesità non grave e non complicata deve essere appannaggio del Medico di Medicina Generale, che può fornire ad essi interventi di “prevenzione rinforzata”, caratterizzati da un percorso di presa in carico personalizzato, con monitoraggio frequente, eventualmente con appoggio ad altri servizi territoriali a vocazione educazionale o preventiva.
I pazienti con obesità grave o complicata necessitano però spesso di un approccio di cura specialistico multidisciplinare che comprenda un più approfondito inquadramento diagnostico, il monitoraggio periodico a lungo termine della evoluzione clinica e delle complicanze, interventi intensivi e continui di modificazione dello stile di vita (educazione nutrizionale, attività fisica e terapie comportamentali), utilizzo di farmaci anti-obesità, eventuale ricorso alla chirurgia dell’obesità.
L’individuazione e l’invio di questi pazienti rimane compito critico del Medico di Medicina Generale, possibilmente in una ottica di rete integrata. Va comunque qui ricordato che i confini tra le competenze dei diversi livelli non sono statici o immutabili. Alcuni dei farmaci anti-obesità attualmente disponibili (liraglutide ed orlistat) sono prescrivibili anche dal Medico di Medicina Generale e possono quindi essere utilizzati in un percorso di cura più avanzato anche a livello di cure primarie
Conclusioni
Il management a lungo termine del paziente con obesità dovrebbe costituire una delle priorità per l’Italia come per tutto il mondo industrializzato. Tuttavia, il Servizio Sanitario Nazionale del nostro paese non sembra ancora pronto ad affrontare questa priorità in maniera strutturale. Questo in parte è legato a ragioni organizzative e logistiche, ma senz’altro è anche la conseguenza dello stigma clinico che ancora interessa l’obesità come malattia cronica.
Lo stigma clinico influenza anche i comportamenti individuali dei professionisti sanitari che non sembrano pronti a prestare alla cura dell’obesità le stesse competenze ed attenzioni che prestano alla cura di altre malattie croniche. È necessario da parte di tutti noi uno sforzo educativo e professionale per colmare questo”gap”.
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