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Osteoporosi, l’evoluzione e il futuro della terapia

La terapia dell'osteoporosi ha subito profondi cambiamenti nel corso degli anni. Nonostante i progressi compiuti restano però ancora sfide aperte

a cura di

Andrea Giachi (1), Roberta Gualtierotti (1,2)
1. S.C. Medicina – Emostasi e Trombosi, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano
2. Dipartimento di Fisiopatologia Medico-chirurgica e dei Trapianti, Università degli Studi di Milano

La terapia dell’osteoporosi ha subito profondi cambiamenti nel corso degli anni. Nonostante i progressi compiuti restano però ancora sfide aperte come per esempio, la personalizzazione del trattamento in funzione del rischio individuale, la gestione degli effetti collaterali sul lungo periodo e la ricerca di trattamenti che, oltre a rallentare la perdita ossea, favoriscano un rimodellamento dell’osso efficace e duraturo.

Un tempo l’osteoporosi e le fratture venivano considerate come parte del normale processo di invecchiamento e non un processo patologico (1). I primi passi nel riconoscimento dell’osteoporosi come malattia risalgono al 1940, quando l’endocrinologo Fuller Albright scrisse un documento che identificava chiaramente la sindrome dell’osteoporosi postmenopausale (2). Albright trattò le donne con estrogeni in studi a lungo termine sul bilancio del calcio, dimostrando che il trattamento ormonale portava un bilancio del calcio positivo (3). L’uso degli estrogeni all’epoca era ancora poco diffuso per via della scarsa conoscenza sulla posologia di tali trattamenti, sebbene fossero già stati approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) nel 1942 per il trattamento dei sintomi della menopausa.

La terapia farmacologica negli anni

Successivamente, alla fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70, l’interesse fu rivolto all’azione degli ormoni naturali circolanti, come la calcitonina, scoperta nel 1962 (4). Si dimostrò l’effetto antiriassorbitivo della calcitonina sugli osteoclasti, con un possibile risvolto terapeutico nei pazienti con osteoporosi (5). Soltanto nel 1974, su richiesta delle autorità regolatorie, venne creato un gruppo di revisione dei dati di letteratura sul trattamento dell’osteoporosi con estrogeni. La conclusione fu che essi potevano essere efficaci in “casi selezionati”.

Una decina di anni più tardi, grazie ad ulteriori studi, la FDA giunse infine a dichiarare che gli estrogeni erano efficaci nel trattamento dell’osteoporosi. Tali studi dimostrarono non solo che l’uso degli estrogeni riduceva l’incidenza di tutte le fratture, ma anche che poteva prevenire la perdita di massa ossea (6). Tali dati vennero poi confermati nel 2003, alla conclusione dell’amplissimo Women’s Health Initiative Study, condotto su 40.000 donne, quando venne riportata una riduzione dell’incidenza di fratture del 24% in tutti i siti dello scheletro (7).

Inizialmente, hanno destato non poche preoccupazioni alcuni risultati inaspettati dello studio WHI, che sembravano associare l’utilizzo della terapia ormonale sostitutiva al rischio di cancro al seno e di malattie cardiovascolari (CVD), portando molte donne a interrompere la terapia ormonale (HT) e molti medici a smettere di prescriverla. Tuttavia, una successiva analisi secondaria dei risultati dello studio WHI suddivisa per fasce d’età, ha mostrato che l’aumento del rischio di coronaropatia identificato riguardava principalmente le donne che iniziavano la terapia ormonale dopo i 60 anni o a più di un decennio dalla menopausa. Infatti, i dati di followup a 18 anni dello studio WHI non hanno evidenziato differenze nella mortalità specifica per causa o nella mortalità per tutte le cause tra le donne trattate con terapia ormonale sostitutiva rispetto al placebo e hanno indicato tendenze favorevoli per la mortalità generale tra le donne più giovani (8).

Attualmente, la terapia estroprogestinica non è più indicata in linea guida, sebbene per donne sofferenti di sindrome climaterica, soprattutto se ancora entro i 50-55 anni di età, la somministrazione temporanea (uno-tre anni) di estrogeni o di estroprogestinici (a seconda che siano isterectomizzate o meno), può essere valutata.

Sempre all’inizio degli anni ’70, erano emersi alcuni lavori sull’uso dell’etidronato, un bisfosfonato di prima generazione, inizialmente impiegato nel trattamento della malattia di Paget. Ben presto si osservò che l’uso giornaliero prolungato portava all’osteomalacia, per cui venne introdotto l’uso ciclico per il trattamento dell’osteoporosi. Gli studi effettuati tuttavia riportavano conclusioni contrastanti, con incremento da un lato della densità ossea della colonna vertebrale ma dall’altro un aumento delle fratture vertebrali (9).

Nel 1979 vennero pubblicate le prime linee guida della FDA sui farmaci per l’osteoporosi (10). Tali indicazioni si basavano sulla limitata esperienza derivante dai pochi studi sul metabolismo osseo condotti all’epoca, rudimentali e con un numero molto esiguo di pazienti, per gli standard attuali. Si raccomandava l’esecuzione di due studi di fase 2 che sarebbero passati alla fase 3 una volta determinata la dose ideale.

I tre farmaci studiati per l’osteoporosi erano in particolare etidronato, calcitonina e fluoruro. Negli anni successivi gli studi su queste molecole vennero approfonditi. Per quanto riguarda la calcitonina, gli studi iniziali mostrarono un incremento del calcio totale corporeo nei pazienti trattati e questo bastò per consentirne l’approvazione da parte dell’FDA.

Nei decenni successivi, numerosi studi rivelarono risultati contrastanti in termini di efficacia. Per questo motivo e per via del rischio nello sviluppo di diverse neoplasie negli anni ’10 del 2000 la calcitonina non fu più approvata come trattamento a causa della mancanza di efficacia: sia EMA che FDA ne decretarono il ritiro dal commercio relegando le formulazioni iniettabili nella terapia per brevi periodi della malattia di Paget o dell’ipercalcemia grave neoplastica (EMA/731082/2012 Rev.1).

Nemmeno il fluoruro ebbe futuro: nonostante otto Paesi europei lo avessero approvato per l’osteoporosi, un importante studio durato 4 anni sull’uso del fluoruro mostrò successivamente che, sebbene si riscontrasse un aumento di BMD della colonna vertebrale, il tasso di fratture non si modificava (11) e studi di istologia ossea avevano mostrato come il suo uso si associasse a osteomalacia, segnando la fine del fluoruro come entità terapeutica.

Negli anni ’90 la ricerca si concentrò maggiormente sulla classe dei bifosfonati, che bloccano l’azione riassorbitiva degli osteoclasti andandosi a legare ai cristalli di idrossiapatite e collateralmente inibiscono l’apoptosi osteocitaria. Il primo farmaco sottoposto all’attenzione della FDA è stato l’alendronato, il quale è stato successivamente approvato per il trattamento dell’osteoporosi insieme ad altri quattro bisfosfonati: risedronato, ibandronato, pamidronato e acido zoledronico.L’alendronato, l’ibandronato, lo zoledronato ed il risedronato sono in grado di aumentare la densità ossea vertebrale. Inoltre, alendronato, risedronato e zoledronato sono stati registrati anche per il trattamento dell’osteoporosi maschile. Da segnalare come dati recenti indichino che l’utilizzo di inibitori di pompa protonica in associazione a bisfosfonati orali possa ridurne l’efficacia antifratturativa (12).

Per quanto riguarda la durata ottimale della terapia con bisfosfonati, non è ancora stata stabilita, ma è raccomandabile una sospensione del trattamento di 12-24 mesi in pazienti in terapia da più di 5 anni se a basso rischio di frattura rivalutando periodicamente la densitometria ossea (non prima di 2 anni).

Negli stessi anni, facendo seguito ai primi studi risalenti al 1932 che dimostravano come il paratormone (PTH) bovino avesse un effetto anabolico sull’osso, iniziarono studi sulla somministrazione di PTH umano (13). Un ulteriore importante lavoro sugli animali dimostrò come il dosaggio continuo producesse un effetto di riassorbimento, mentre un dosaggio intermittente avesse un effetto anabolico sull’osso (14). Gli studi successivi dimostrarono l’efficacia del PTH 134 (anche noto come teriparatide) nel trattamento dell’osteoporosi, aprendo la strada nel 1999 ai primi studi sulla proteina recettoriale del PTH (PTHrP) (15). Anche teriparatide ha mostrato di poter incrementare in modo significativo la BMD, tuttavia per l’elevato costo il trattamento è riservato alla prevenzione secondaria in pazienti affetti da severa osteoporosi ad elevato rischio di frattura o nonresponsivi ai farmaci antiriassorbitivi. Inoltre, la terapia si associa frequentemente a disturbi di minor entità (nausea, crampi agli arti inferiori) e ad aumentata incidenza di ipercalcemia, peraltro solitamente asintomatica (16, 17). Secondo scheda tecnica il trattamento non deve superare i 24 mesi e non può essere ripetuto nell’arco della vita.

A partite dal 1999, ma soprattutto nel primo decennio del 2000, furono sviluppati i modulatori selettivi del recettore degli estrogeni (SERM) con l’obiettivo di avere effetti estrogenici (agonistici) in alcuni tessuti come lo scheletro ed effetti neutri o antagonisti in altri tessuti come utero e mammella. Essi agiscono legandosi al recettore estrogenico alfa (ERα) modulando l’attività di osteoblasti ed osteoclasti ed esercitando principalmente un’azione antiriassorbitiva. Storicamente, il tamoxifene è stato il primo SERM, che tuttavia causava aumento della proliferazione dell’endometrio con incremento del rischio di cancro, per cui vennero successivamente studiati il raloxifene (1999), l’arzoxifene (2007), il lasofoxifene (2008), il bazedoxifene (2008).

I SERM attualmente approvati in Italia per la prevenzione ed il trattamento dell’osteoporosi sono il raloxifene ed il bazedoxifene (https://www.aifa.gov.it/documents/20142/1728074/nota79.pdf). Il raloxifene si associa ad aumentato rischio di eventi tromboembolici, per cui non è consigliabile in pazienti che hanno già avuto o sono a rischio di trombosi venosa (16, 17).

I successivi più importanti progressi nel trattamento dell’osteoporosi si verificarono intorno al 2000, grazie alla migliorata comprensione della biologia del rimodellamento osseo. La ricerca sul rimodellamento osseo a livello cellulare ci ha portato a comprendere l’origine degli osteoblasti e degli osteoclasti, che sino a 25 anni fa non era nota. Nello specifico, gli osteoblasti derivano da cellule staminali mesenchimali, mentre gli osteoclasti si sviluppano da precursori del midollo osseo di tipo macrofagomonocitario. Entrambi i tipi di cellule sono influenzati da ormoni, citochine e fattori di crescita.

Nel 1998 venne identificata la capacità di accoppiare osteoblasti ed osteoclasti di una proteina, ovvero il Receptor activator of nuclear factor kappa beta (NFκB) ligand (RANKL), e la capacità dell’osteoprotegerina (OPG) di bloccare e modulare l’azione di RANKL (18, 19). OPG, che è un membro secreto della famiglia dei recettori del TNF, è upregolato dagli estrogeni e dall’1,25(OH)vitamina D e viene regolato dal PTH e dal fattore di crescita tumorale (TGF)beta. Queste scoperte portarono alla produzione di OPG ricombinante, verso cui però le partecipanti allo studio sviluppavano anticorpi neutralizzandone l’efficacia (20).

Successivamente venne sviluppato un anticorpo monoclonale contro la proteina RANKL, ovvero denosumab (FIGURA 1), nel 2004-2005, che è il più potente degli agenti antiriassorbitivi: un’iniezione blocca il riassorbimento osseo per circa 6 mesi, e tale farmaco è stato approvato per il trattamento dell’osteoporosi nel 2010 (21).

Figura 1 Il meccanismo d’azione di denosumab

Note: RANK receptor activator of nuclear factor kappa beta (NFκB); RANKL RANK ligando

Rispetto ai bisfosfonati, con denosumab si ottiene un’azione uniforme su tutte le strutture scheletriche a prescindere dal turnover osseo, e l’aumento densitometrico continuo durante terapia cronica, cessa immediatamente alla sospensione del farmaco.

Denosumab ha inoltre evidenze di efficacia nel trattamento di uomini ad elevato rischio di frattura, di donne con cancro della mammella in terapia con inibitori dell’aromatasi ed in uomini in blocco androgenico per carcinoma della prostata. [www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2022/08/29/201/sg/pdf].

Negli stessi anni, studi di genetica su pazienti affetti da condizioni patologiche come la sclerostosi hanno evidenziato l’importante ruolo della sclerostina nella via di segnalazione Wnt ai geni che promuovono la formazione di osso (22, 23). A partire da questi studi, è stato sviluppato un anticorpo monoclonale contro la sclerostina, chiamato romosozumab, incluso nell’aggiornamento del 2022 della Nota 79 dell’Agenzia Italiana del farmaco (AIFA).

Il riscontro di un incremento non spiegato del rischio di eventi cerebrocardiovascolari associato all’utilizzo di romosozumab ha portato l’AIFA a limitare prudenzialmente il suo impiego, escludendo i soggetti con pregressi eventi cerebrocardiovascolari o con condizioni di rischio cardiovascolare elevato (24).

La Nota 79 AIFA disciplina la prescrizione a carico del Servizio Sanitario Nazionale dei farmaci per il trattamento dell’osteoporosi. L’aggiornamento più recente, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 29 agosto 2022 [www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2022/08/29/201/sg/pdf], include tra i farmaci rimborsabili: alendronato, bazedoxifene, denosumab, ibandronato, raloxifene, risedronato, romosozumab, teriparatide e zoledronato (25, 26).

Il ruolo di calcio e vitamina D

Infine, nella storia del trattamento dell’osteoporosi, ci si è spesso chiesti quale ruolo giochino il calcio e la vitamina D. È risaputo come queste molecole siano un punto cardine nella prevenzione e trattamento dell’osteoporosi. Nel caso dell’osteoporosi primaria che non richiede trattamento antiriassorbitivo secondo le attuali linee guida, il primo approccio consigliato è adeguare l’introito medio giornaliero di calcio, che nella popolazione italiana risulta insufficiente, specie in età senile. Questa carenza alimentare può contribuire alla negativizzazione del bilancio calcico, considerando che il fabbisogno quotidiano di calcio varia a seconda dell’età e di determinate condizioni (TABELLA 1) (25).

Tabella 1 Fabbisogno quotidiano di calcio in base all’età

 

Anche l’ipovitaminosi D è diffusa in Italia, specie in età avanzata. Negli anni ‘70 la vitamina D venne ampiamente utilizzata nel trattamento dell’osteoporosi, spesso in dosi massicce (10.000 a 20.000 UI al giorno) (27). Nel 1971 si scoprì che la vitamina D nativa non era biologicamente attiva, ma doveva essere convertita prima nel fegato in 25OH vitamina D (non attiva) e poi nel rene al metabolita attivo 1,25OH vitamina D (calcitriolo). Già nel 1975 venne creato il calcitriolo sintetico, che successivamente fu approvato per il trattamento dell’osteoporosi nell’insufficienza renale cronica (28).

L’approccio più fisiologico della supplementazione con vitamina D è quello giornaliero; tuttavia ai fini di migliorare l’aderenza al trattamento si ritiene accettabile il ricorso a dosi equivalenti settimanali o mensili. La dose corretta di vitamina D rimane ad oggi ancora dibattuta, con la raccomandazione più diffusa di mantenersi su un dosaggio di 800 UI al giorno e un livello sierico di 25idrossivitamina D >20 ng/mL negli individui più anziani (29).

Dato l’ampio utilizzo della vitamina D non sempre appropriato, nel 2019 l’AIFA con la Nota 96 ne ha regolamentato la rimborsabilità nel tentativo di arginare il consumo e i costi, che indica la supplementazione in pazienti con livelli plasmatici di vitamina D <20 ng/ml e, indipendentemente dai livelli di vitamina D, in pazienti affetti “da osteoporosi da qualsiasi causa o osteopatie accertate” senza però una base di appropriatezza.

La Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMMS) ha deciso pertanto di istituire una task force multidisciplinare per fornire linee guida cliniche per migliorare e standardizzare la “pratica clinica” e garantire un riferimento basato su prove di evidenza per istituzioni, agenzie nazionali e regionali [www.siommms.it/wpcontent/uploads/2023/03/SintesinuoveraccomandazioniSIOMMMS2022carenzavitaminaD.pdf].

Si definisce carenza grave per valori di 25(OH)D < 10 ng/mL che se protratti nel tempo portano a rachitismo e osteomalacia. SIOMMMS suggerisce un livello “ottimale” o “desiderabile” per la popolazione generale con consenso sull’associazione per valori sierici di 25(OH)D >20 ng/mL, mentre nella popolazione affetta da osteoporosi, viene ritenuto ottimale un livello di almeno 30 ng/mL. Qualora si ritenga opportuno ricorrere alla somministrazione di dosi elevate (boli), si raccomanda che questi boli non superino le 100.000 UI (30). Le linee guida hanno confermato l’assenza di un evidente beneficio nella supplementazione della popolazione sana, salvo nei casi di soggetti a rischio di ipovitaminosi D (TABELLA 2).

Tabella 2 Popolazioni/condizioni a rischio di ipovitaminosi D

 

Sull’impiego alternativo di metaboliti idrossilati della vitamina D (calcifediolo, 1-a calcidiolo, calcitriolo) mancano a tutt’oggi adeguate valutazioni comparative dosi-equivalenti rispetto alla vitamina D e documentazioni di efficacia antifratturativa analoghe a quelle disponibili per il colecalciferolo.

Il dosaggio dei livelli sierici della 25(OH) vitamina D è ritenuto il miglior indicatore laboratoristico dello stato vitaminico D. Le condizioni di rischio per ipovitaminosi D sono ben note e vi è un ampio intervallo terapeutico di sicurezza con la supplementazione di vitamina D, grazie ai previsti meccanismi fisiologici di regolazione della sua idrossilazione. Pertanto, il dosaggio di 25(OH) vitamina D, dal costo non indifferente, non è sempre giustificato dal punto di vista economico, specie negli anziani nei quali una condizione di ipovitaminosi D è notoriamente diffusa. Se si usano le dosi usualmente raccomandate non è ritenuto indispensabile il dosaggio di 25(OH) vitamina D neppure ai fini del monitoraggio; qualora lo si ritenesse opportuno in casi dubbi, questo non va comunque ripetuto prima dei 4 mesi (TABELLA 3).

Tabella 3 Indicazioni sull’interpretazione dei valori di 25(OH)D

Anche l’attività fisica regolare è fondamentale nella gestione dell’osteoporosi. Oltre ai benefici sul metabolismo osseo e alla riduzione del rischio di cadute, esercizi specifici di rafforzamento muscolare e di equilibrio possono migliorare la stabilità e la coordinazione, contribuendo ulteriormente alla prevenzione delle fratture.

Misura dell’efficacia delle terapie

L’outcome primario desiderato per dimostrare l’efficacia dei farmaci antiosteoporosi 50 anni fa era la riduzione del numero di fratture, evento molto costoso da indagare; pertanto, si propose e venne approvata la misurazione della massa ossea come endpoint surrogato per provare l’efficacia del trattamento, a condizione che l’istologia dell’osso fosse normale. All’epoca delle prime linee guida della fine degli anni ‘70, la massa ossea veniva misurata con l’assorbimetria a singoli fotoni del radio, con la densitometria a raggi X dell’ulna e del radio e con lo spessore corticale del metacarpo.

Un elemento cruciale che consentì un grande passo avanti negli studi sull’osso fu l’introduzione dell’assorbimetria a raggi X a doppia energia (dual-energy x-ray absorptiometry  DXA) Hologic e Lunar, che utilizza i raggi X come fonte di energia duale, per la valutazione della densità minerale ossea (31, 32).

Nel 1994, le nuove linee guida per l’osteoporosi inclusero la DXA tra gli strumenti idonei per la valutazione della qualità dell’osso. Nello stesso anno, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomandò che l’osteoporosi fosse definita come un valore di BMD <2,5 deviazioni standard (DS) al di sotto della media di massa ossea nei giovani di 25 anni di età e tale valore fu definito “Tscore”, mentre il valore di BMD confrontato con una popolazione della stessa età del soggetto fu chiamato “Zscore” (33).

Ancora oggi, l’analisi densitometrica consente di misurare in modo abbastanza accurato e preciso la massa ossea basandosi sulla valutazione con tecnica DXA della densità minerale, raffrontata a quella media di soggetti adulti sani (picco di massa ossea). Secondo l’OMS, nell’interpretare i risultati della BMD conviene adottare le seguenti definizioni:

  1. La BMD normale è definita da un Tscore compreso fra +2,5 e 1,0 DS;
  2. L’osteopenia (bassa BMD) è definita ad un Tscore compreso tra 1,0 e 2,5 DS;
  3. L’osteoporosi è definita da un Tscore inferiore a 2,5 DS;
  4. L’osteoporosi conclamata è definita da un Tscore inferiore a 2,5 DS e dalla contemporanea presenza di una o più fratture da fragilità.

Nel 2001, in seguito al Consensus Development Panel on Osteoporosis Prevention, Diagnosis, and Therapy del National Institute of Health americano (34), l’osteoporosi venne definita “una malattia sistemica dello scheletro caratterizzata da una ridotta massa ossea e da alterazioni qualitative (macro e microarchitettura, proprietà materiali) che si accompagnano ad aumento del rischio di frattura”.

Questo fu una pietra miliare che permise di spiegare l’osservazione che molto spesso le fratture da fragilità ossea si verificano in pazienti con BMD normale o bassa a causa di cambiamenti nella qualità dell’osso, come avviene in corso di osteoporosi metasteroidea (pazienti in terapia con prednisone o equivalenti ≥ 5 mg/die) e iatrogena indotta da farmaci inibitori delle aromatasi utilizzati per prevenire le recidive di carcinoma della mammella o dalla deprivazione androgenica nel trattamento del carcinoma della prostata avanzato.

Nel corso degli anni, l’uso dei Tscore, unito all’analisi di diversi fattori di rischio raccolti da una banca dati di circa 50.000 persone coinvolte in studi a lungo termine, ha permesso lo sviluppo di un punteggio di rischio per fratture, denominato FRAX® (35). Recentemente è stata revisionata la versione italiana del FRAX®, il DeFRA che prevede una valutazione dei vari fattori di rischio di frattura più coerente con quelli considerati dalle Autorità Sanitarie Italiane come l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e AIFA), approvato e sostenuto da SIOMMMS, SIR ( Società Italiana di Reumatologia) e GIBIS (Gruppo Italiano Bone Interdisciplinary Specialists.

Il futuro

Nuove molecole sono attualmente in fase di studio per valutarne l’efficacia e la sicurezza nel breve e lungo termine. Con un meccanismo simile al denosumab, TK006, anticorpo antiRANKL, è attualmente in fase 1, mentre sulla base del romosozumab è stato creato blosozumab, un anticorpo monoclonale antisclerostina di tipo IgG, che si è dimostrato efficace in un trial di fase 2 (36).

Parallelamente, la ricerca ha approfondito la fisiopatologia della malattia, portando alla comprensione del ruolo di fattori genetici, della via di segnalazione Wnt e del bilancio tra osteoclasti e osteoblasti. Questo ha aperto la strada a nuove strategie terapeutiche, tra cui farmaci anabolici, che stimolano cioè la neoformazione ossea come teriparatide e abaloparatide.

Quest’ultimo è un peptide sintetico del paratormone, con il quale condivide i primi 20 aminoacidi. Esso ha dimostrato di determinare un aumento significativamente maggiore della BMD e una riduzione significativamente maggiore del rischio di frattura sia a livello vertebrale sia femorale rispetto a placebo o al teriparatide. È attualmente approvato da EMA ma non da AIFA.

Anche odanacatib, inibitore della catepsina K, ormone chiave dell’attività osteoclastica, ha mostrato di essere in grado di ridurre il riassorbimento osseo, tuttavia gli effetti collaterali di tipo cardiovascolare ne hanno rallentato lo sviluppo (37).

Altri studi si stanno concentrando sul ruolo di IGF, TGFbeta e dei loro pathway per identificare molecole in grado di stimolare la rigenerazione ossea.

In futuro, un importante obiettivo sarà quello di riconoscere sempre più forme di osteoporosi meno conosciute come l’osteoporosi gravidica ancora oggi poco considerata, e l’osteoporosi maschile, spesso misconosciuta con gravi conseguenze per chi ne è affetto, compreso un aumento del rischio di mortalità (38, 39). Anche in questo campo, la medicina di genere sarà un valido aiuto.

Conclusioni

Nonostante i grandi progressi nella cura dell’osteoporosi, rimangono ancora sfide aperte, tra cui la personalizzazione della terapia in base al rischio individuale di frattura, la gestione degli effetti collaterali a lungo termine e la ricerca di trattamenti che non solo rallentino la perdita ossea, ma favoriscano un rimodellamento efficace e duraturo. L’attenzione crescente verso la combinazione di approcci farmacologici, nutrizionali e comportamentali, insieme all’innovazione nelle terapie cellulari e geniche, lascia intravedere ulteriori sviluppi che potrebbero migliorare significativamente la qualità della vita dei pazienti con osteoporosi.

L’evoluzione della terapia dell’osteoporosi dimostra come la medicina moderna, basata su una crescente comprensione dei meccanismi biologici, sia in grado di trasformare la gestione di malattie croniche con un impatto globale sempre più rilevante.

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articolo a cura della redazione

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