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Demenza, il rischio non aumenta con l’uso prolungato di gastroprotettori

Una terapia prolungata con inibitori di pompa protonica (IPP) e antagonisti dei recettori istaminici H2 non sembra aumentare il rischio di demenza o accelerare il declino cognitivo in soggetti anziani. Sono questi i risultati di uno studio che ha seguito per 5 anni più di 19mila soggetti over 65, presentato all’ultima edizione del Digestive Disease Week (DDW 22).

I possibili rischi di una terapia a lungo termine con IPP

Raaj S Mehta, del Massachusetts General Hospital e della Harvard Medical School di Boston, primo autore dello studio, ricorda:

Gli IPP sono tra i farmaci più comunemente usati in tutto il mondo. Dato che l’utilizzo degli IPP è aumentato negli ultimi anni, è cresciuta anche la preoccupazione sui possibili effetti negativi dell’uso a lungo termine.”

In diverse ricerche sono emerse alcune possibili associazioni tra terapie prolungate con IPP e ictus, anemia e infarto del miocardio. Si tratta però di dati che vengono da studi osservazionali, in cui non c’è indicazione circa un rapporto causale tra terapie e patologie.

Per quanto riguarda i possibili rischi di declino cognitivo accelerato Mehta ha ricordato che:

In una recente indagine su pazienti e medici, compresi i gastroenterologi, un terzo dei pazienti di età superiore ai 65 anni ha riferito di preoccuparsi del rischio di demenza favorito dall’assunzione di IPP e il 10% dei medici intervistati aveva preoccupazioni simili”.

Su questo tema ha fatto molto clamore uno studio pubblicato nel 2016, che ha mostrato un’associazione positiva tra l’uso di IPP e la demenza.

Questo e altri studi analoghi hanno mostrato limiti nella valutazione dello stato di demenza e nel peso attribuito a fattori confondenti. Per questo Mehta e il suo team hanno impostato uno studio con una valutazione più accurata delle funzioni cognitive dei partecipanti e un quadro più chiaro delle loro comorbilità.

Lo studio ha analizzato  una coorte multinazionale di 19.144 adulti di età superiore ai 65 anni dagli Stati Uniti Stati e Australia che sono stati sottoposti a visite in presenza annuali per valutare l’uso di farmaci e la funzione cognitiva. Le funzioni cognitive e il loro stato di salute mentale dei partecipanti sono stati valutati con diversi test specifici alla partenza dello studio e dopo 1,3,5 e 7 anni.

Gli endpoint primari includevano la demenza incidente e le sue sottoclassificazioni (probabile malattia di Alzheimer, manifestazioni miste/altre), definite secondo i criteri del DSM-IV. Gli endpoint secondari includevano il deterioramento cognitivo senza demenza, nonché i cambiamenti nella cognizione specifica del dominio, inclusa la cognizione globale, la memoria, il linguaggio/funzioni esecutive, la velocità psicomotoria e il composito di questi domini. Tutte le analisi sono state aggiustate per potenziali fattori confondenti, incluso l’uso concomitante di farmaci.

“Le visite di persona – spiega Mehta – ci hanno fornito una ricca messe di dati oltre all’uso di farmaci, inclusi parametri come  la pressione sanguigna e dati aggiornati sullo stile di vita, come il consumo di alcol. Siamo stati in grado di profilare le comorbidità mediche e i ricoveri e siamo stati anche in grado di valutare il benessere generale attraverso questionari sui sintomi della depressione”.

I risultati dello studio

La popolazione valutata comprendeva 4.667 utilizzatori di PPI e 14.267 non utilizzatori. L’età media era di circa 75 anni e poco più della metà erano donne.

In un follow-up mediano di 5 anni complessivamente si sono verificati 572 casi incidenti di demenza. Non è stata rilevata alcuna associazione tra l’uso di PPI al basale e la demenza incidente dopo aggiustamento per età, sesso, istruzione, razza/etnia, paese, fumo, consumo di alcol, indice di massa corporea (BMI), storia familiare, malattia renale cronica, diabete, ipertensione, depressione , e l’uso di altri farmaci. Lo stesso valeva quando si esaminavano specifiche diagnosi di demenza, tra cui il morbo di Alzheimer e le demenze miste.

Non c’era inoltre alcuna associazione tra l’uso di antagonisti dei recettori istaminici H2 o di nuovo uso di IPP e demenza incidente dopo aggiustamento per le stesse covariate. Anche per quanto riguarda il lieve deterioramento cognitivo o cambiamenti nella cognizione volta non è stato osservato alcun collegamento con l’uso di antiacidi o IPP.

Conclude Mehta:

Abbiamo scoperto che l’uso di base dei IPP o degli antagonisti dei recettori istaminici H2 negli anziani non è associato a demenza, lieve deterioramento cognitivo o declino dei punteggi cognitivi nel tempo. Sebbene gli sforzi di deprescrizione siano importanti, specialmente quando i farmaci non sono indicati, questi dati forniscono rassicurazione sugli impatti cognitivi dell’uso a lungo termine dei IPP negli anziani, soprattutto quando c’è l’indicazione al loro uso”.

Alessandro Visca
Alessandro Visca

Giornalista specializzato in editoria medico­­­­-scientifica, editor, formatore.