Tumore alla prostata, i pazienti chiedono più supporto
Pubblicati i risultati di un’indagine conoscitiva su pazienti colpiti dalla neoplasia, che richiedono un maggior contatto con il medico di famiglia e un sostegno psicologico
Il tumore della prostata risulta attualmente in cima alla classifica delle neoplasie più comuni nella popolazione maschile adulta. Ma qual è la percezione della malattia da parte dei pazienti, e quali sono i suoi bisogni ancora insoddisfatti?
A dare una risposta a queste domande ci ha pensato un’indagine conoscitiva realizzata nell’ambito dell’iniziativa “Il contatto” promossa dalle Associazioni del gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”. Ebbene, se si guardano le statistiche delle risposte fornite dagli intervistati, emergono la necessità di una maggiore informazione sulla malattia e sul percorso terapeutico, una notevole preoccupazione per l’impatto della chirurgia sulla vita sessuale e una richiesta di un rapporto più stretto con il medico di Medicina generale e di un supporto psicologico. Ancora deficitario, infine, l’accesso ai test genetici.
Ancora poca informazione sulla malattia e la prevenzione
Se si guardano da vicino le percentuali di risposta, emerge che il 41% del campione si dichiara “poco” informato sul tumore della prostata e il 20,1% “per niente”. Scarsa anche l’attitudine alla prevenzione primaria, con quasi un terzo del campione che non ha mi fatto il dosaggio del PSA quasi il 42% ha scoperto la neoplasia proprio a seguito di tale esame; inoltre, quattro soggetti su 10 non sono mai stati visitati da un urologo prima della diagnosi. Per quanto concerne i test genetici, sono stati eseguiti solo dal 61,8% del campione, e il 37,5% addirittura non ne ha mai sentito parlare.
Annamaria Mancuso, presidente di Salute Donna Onlus e coordinatrice del gruppo “La salute: un bene da difendere, un diritto da promuovere”, ha spiegato.
da alcuni anni la consapevolezza della popolazione maschile rispetto a questo tumore è in aumento, così come la presa di coscienza dell’importanza di proteggere la propria salute uro-genitale anche per le ricadute che un tumore prostatico scoperto tardi può avere sulla sopravvivenza e la qualità della vita. È in crescita l’attenzione alla prevenzione primaria, che tuttavia dovrebbe essere potenziata anche tra i medici di medicina generale, ai quali per primi si rivolge l’uomo quando qualcosa non va a livello della sfera uro-genitale.”
Un impatto pesante della chirurgia sulla qualità della vita
Per quanto riguarda l’esito delle diagnosi dei pazienti intervistati: in sette casi su dieci si trattava di un carcinoma circoscritto alla ghiandola prostatica, nel 22,2% era in fase localmente avanzata e nel 9% in fase metastatica. Qualche passo avanti occorre fare anche sul percorso terapeutico: il 51,4% del campione, infatti, non è stato seguito da un team multidisciplinare e quasi il 40% non ne ha mai sentito parlare. Infine, resta una zona d’ombra sulla percezione soggettiva della qualità della vita associata alla malattia.
Paolo Gontero, professore ordinario di urologia presso l’Università di Torino e direttore della Clinica urologica dell’Ospedale Molinette, ha sottolineato:
Alcuni dati dell’indagine fanno molto riflettere: il primo è l’impatto negativo della malattia dopo l’intervento chirurgico sul benessere sessuale, dato che che il 36% del campione valuta come ‘pessima’ e il 23% come ‘scadente’ la funzione sessuale. Indubbiamente sono presenti risvolti psicologici ma sicuramente questo aspetto della vita del paziente viene sottovalutato da noi urologi chirurghi e ci induce ad una riflessione se non sia il caso di cambiare strategia terapeutica.”
Il secondo dato altrettanto rilevante è la scarsa informazione e conoscenza della malattia e del percorso di cura, secondo il professore, che ha detto:
serve aumentare il dialogo tra specialista e paziente al quale andrebbero meglio spiegate alcune problematiche che possono insorgere dopo la chirurgia. Il fatto è che il paziente non parla dei problemi sessuali, però noi medici abbiamo il dovere prima di tutto di non nuocere; quindi, non dobbiamo togliere vita agli anni, perché ridurre la qualità della vita significa abbattere la vita stessa. Non mi meraviglia il dato dei test genetici, offerti solo a un paziente su tre; diversamente da quanto accade per la donna, infatti, nell’uomo non ci sono ancora sufficienti evidenze che giustifichino un reale vantaggio nell’eseguire l’analisi genetica, che può trovare un certo riscontro e beneficio solo in caso di malattia avanzata, quando la scelta terapeutica diventa fondamentale, per esempio nell’utilizzo dei PARP-inibitori in pazienti con mutazione BRCA”.
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