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COVID e salute mentale. Stress, ansia e depressione dopo la pandemia

  • La pandemia da COVID-19 e le relative, necessarie, misure di contenimento dell’infezione (distanziamento fisico, lockdown, isolamento domiciliare)  hanno avuto importanti ripercussioni sulla salute mentale della popolazione generale, a livello globale, e questo indipendentemente dall’aver affrontato, o meno, direttamente la malattia da SARS-CoV-2.
  • Uno dei risvolti più critici della pandemia è l’aver considerato poco le sue conseguenze sia a breve che a lungo termine sulla salute mentale della popolazione. L’esposizione prolungata a eventi stressanti genera ansia, stress, depressione soprattutto in certe fasce della popolazione, come i giovanissimi ma non solo, e dunque si rende necessaria una maggiore sensibilizzazione sia a livello di popolazione generale che tra la classe medica affinché vi sia attenzione verso condizioni e situazioni che possano essere il preludio di patologie psichiatriche gravi e disabilitanti.

a cura di
Cesare Peccarisi1
in collaborazione con Claudio Mencacci2

  1. Redazione; Responsabile comunicazione scientifica Società Italiana di Neurologia
  2. Direttore emerito Neuroscienze Salute Mentale ASST Fatebenefratelli-Sacco, Milano; Co-Presidente Società Italiana di Neuropsicofarmacologia; Past president Società Italiana di Psichiatria

Marker neuroinfiammatori e disturbi psichiatrici

Uno studio multicentrico dall’allusivo titolo “The Pandemic Brain” pubblicato da ricercatori statunitensi, inglesi, egiziani, svedesi e italiani (1) ha riscontrato la presenza di marker infiammatori correlati a morbilità psichiatrica anche nei reduci sani mai infettatisi durante la pandemia da COVID-19, evidenziando come anche in questi soggetti resti traccia del derangement dei meccanismi neuroendocrini a testimonianza dell’impatto che l’evento pandemico ha indotto sulla disgregazione degli stili di vita e sulla salute mentale residuando affaticamento generale, brain fog, depressione, ansia e altri maladattamenti psichici.

I ricercatori diretti da Ludovica Brusaferri e afferenti per lo più all’Harvard University di Boston e Charlestown, ma anche al King’s College e al NIHR Maudsley Biomedical Research Centre di Londra, nonché alle Università del Cairo, di Gothenburg e di Padova si sono focalizzati su soggetti di ambo i sessi negativi all’infezione da SARS-CoV-2 studiati tramite neuroimaging (PET o risonanza magnetica) in funzione del quadro clinico man mano rilevato a cui è stata associata la valutazione longitudinale della situazione neuroinfiammatoria per l’eventuale riscontro di marker infiammatori gliali.

I partecipanti allo studio appartenevano a un dataset pre-pandemico di 86 soggetti (età media 42-55 anni) e a uno pandemico di 15 (età media 60 anni) dove i soggetti sani erano stati arruolati come controlli in altri studi, risultando comunque sempre negativi al test per SARS-CoV-2.

Come marker di riferimento è stato utilizzato il livello serico di due proteine valutate prima e dopo i periodi di lockdown del 2020: il TPSO e il mioinositolo.

La proteina mitocondriale di traslocazione TPSO sarebbe espressa dall’attivazione dei macrofagi nei quali è implicata nella down-regulation delle risposte infiammatorie (2). Indicata anche come 18 kDa translocator protein o recettore benzodiazepinico periferico (3) è un noto marker di danno cerebrale ed è considerato un importante indice neuroinfiammatorio (4).

Localizzato sulla membrana citoplasmatica esterna va incontro a neoediting proteico in corso di patologie del sistema nervoso centrale (SNC) che inducono variazioni funzionali della glia, diventando un sito di binding utile negli studi di neuroimaging (5). TPSO e mioinositolo sono trasversalmente paragonabili ai marker rilevati per ansia e depressione nel 2019 da un gruppo dell’Università di Varsavia (6) che aveva evidenziato come l’esposizione allo stress di giovani adulti induca fenomeni di deacetilazione e demetilazione con introduzione di gruppi metilici nella citosina del DNA con conseguenti alterazioni epigenetiche che riverberano sulla regolazione dell’umore e che risultano evidenti nei geni NR3C1 implicati nel controllo dell’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e nei geni SLC6A4 implicati nella neurotrasmissione serotoninergica. A tali rimaneggiamenti epigenetici sarebbe in parte legata anche l’efficacia di antidepressivi come fluoxetina o citalopram così come quella di eutimici come l’acido valproico. Ciò potrebbe rendere tali biomarker epigenetici un interessante tool diagnostico potenzialmente utile per la diagnosi e il trattamento di questi e di altri disturbi psichiatrici con cui identificare pazienti particolarmente vulnerabili ai disturbi affettivi.

Il long COVID cognitivo e psichico e le sue “varianti”

Questo tipo di ricerca può aprire nuovi orizzonti farmacologici fondati sulle basi neurobiologiche dei disturbi affettivi. E nella connessione fra tali basi neurobiologiche e la neuroinfiammazione affondano le radici dell’alterazione in corso di infezione da COVID che l’anno scorso alcuni ricercatori canadesi (7) furono fra i primi a segnalare definendo la cosiddetta PASC, ovvero Post-acute sequelae of COVID-19, oggi universamente nota come long COVID (8).

Caratterizzata da vari sintomi fra cui una significativa alterazione dell’umore e una sensibile compromissione cognitiva, insorge a seguito della prolungata infiammazione indotta dal contagio, con sequele che si protraggono a distanza di 1-4 mesi soprattutto per quanto riguarda la sfera psichica. Un’ulteriore variazione della sintomatologia del long COVID è quella appena descritta dal gruppo di Michele Spinnici (9) dell’ospedale Careggi di Firenze all’ECCMID 2022 (European Congress of Clinical Microbiology & Infectious Diseases), svoltosi a Lisbona dal 23 al 26 aprile (10).

Confrontando i pazienti del periodo marzo-dicembre 2020 quando era dominante il ceppo virale originale con quelli di gennaio-aprile 2021 quando a dominare era la variante alfa hanno osservato un significativo cambiamento nella sintomatologia cognitivo-emotiva. Con la variante alfa le donne riportavano la sintomatologia con una frequenza circa doppia rispetto agli uomini e se risultavano ridotte anosmia, disgeusia, ipoacusia, ad aumentare erano invece mialgia, insonnia, brain fog, ansia e depressione. Alla luce di questa scoperta potrebbe essere utile un confronto immunologico dei due tipi di pazienti.

Intanto al 74° convegno annuale dell’American Academy of Neurology svoltosi dal 2 al 7 aprile 2022 a Seattle, uno studio dell’Università della California (11) ha evidenziato in soggetti PASC elevati livelli di attivazione immunitaria liquorale e la presenza di marker immuno-vascolari che perdurano in media 10,2 mesi dalla comparsa dei primi sintomi del contagio. Alcuni di questi sono specificamente connessi con le fasi di riacutizzazione della sintomatologia in particolare cognitiva con maggiori livelli di proteina C reattiva (0,007 vs 0,000 mg/L, p=0,004) e di sieroamiloide A (0,001 vs 0,000 mg/L, p=0,001). A ciò si associa un maggior trend di crescita di altri marker di attivazione immunitaria liquorale come la proteina 10 indotta da interferone gamma, detta anche piccola citochina inducibile B10 (IP-10; p =0,059), l’interleukina 8 (p =0,059), nonché aumento di marker immuno-vascolari come il fattore C di crescita endoteliale VEGF-C (p =0,095) e il VEGFR-1 (p =0,059). Il riscontro di tali marker, alcuni dei quali risultati specifici per l’esordio di PASC solo cognitivo, testimonia come la protratta reazione all’infezione alimenti, verosimilmente tramite un prolungato stato di infiammazione, il derangement emotivo e la compromissione cognitiva.

Il fronte clinico

Al persistere di queste stimmate infiammatorie (13) fa riscontro sul piano clinico un aumento dei disturbi depressivi (+ 26%) e di quelli ansiosi (+ 28%) nella popolazione generale e non solo negli infettati (12). L’ha recentemente sottolineato il professor Claudio Mencacci in occasione del 23° congresso nazionale della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia (SINPF) (14) da lui presieduto con il professor Matteo Balestrieri insieme al quale è anche co-presidente dell’omonima società scientifica. Ad essere più colpite sono le categorie dei soggetti fragili e cioè donne, anziani e giovani sui quali gravano importanti cofattori di scatenamento come disoccupazione, impoverimento e isolamento.

Se è vero che questi due disturbi colpiscono chiunque e in ogni età, situazioni di particolare stress sia personali che collettive come appunto la pandemia, possono favorirne la comparsa –spiega il professor Mencacci- tant’è che in questi ultimi due anni i livelli di ansia e depressione sono raddoppiati in tutti, ma nei giovani e negli adolescenti sono quadruplicati e i disturbi d’ansia gravi sono addirittura quintuplicati (15).”

“Nei minori – continua Mencacci – depressione e ansia possono presentarsi dall’età prescolare all’adolescenza.  A favorirne la comparsa e il momento di comparsa sono molteplici fattori che vanno dalle esperienze di vita, alla familiarità se non addirittura all’ereditarietà genetica. Occorre estrema attenzione in questo periodo post-COVID perché continuano a crescere e la guardia non va abbassata. Uno specifico piano di trattamento dipende dall’età del ragazzo, dalla gravità dei suoi sintomi, dalla facilità di accesso alle cure e dall’orientamento familiare. È importante parlare in famiglia di eventuali problemi psicologici fin dall’inizio, trasmettendo modelli di vita sana e corrette strategie di fronteggiamento dello stress che evitino l’abuso di sostanze e comportamenti a rischio. Alcuni servizi di assistenza mentale propongono corsi per genitori dove insegnano un’efficace comunicazione per una corretta gestione ad esempio dei casi di bullismo o di discriminazione che eviti di esporre i ragazzi a un’estremizzazione dello stress. Ma al di là dei servizi di neuropsichiatria infantile è importante un continuo dialogo anche con il pediatra di famiglia.”

In questo periodo – sottolinea Mencacci – genitori, insegnanti e pediatri possono monitorare i segni di ansia e depressione facendo attenzione a semplici segnali d’allarme come le difficoltà scolastiche, l’assenteismo scolastico (16), le alterazioni di sonno o alimentazione, il mantenimento delle relazioni con gli amici o in famiglia, il ritiro da consuete attività, oppure per quanto riguarda i pediatri facendo uso degli specifici questionari neuropsicologici di valutazione per ansia e depressione durante le visite”

“Questi disturbi – aggiunge Mencacci – possono essere trattati non solo con i farmaci, ma anche ad esempio con la psicoterapia comportamentale in cui al ragazzo vengono insegnati i cosiddetti esercizi comportamentali, come l’esposizione in cui esternando i suoi problemi impara nuove informazioni e a come instaurare nuovi riflessi comportamentali. Ogni esercizio comportamentale viene poi discusso ed elaborato cognitivamente di seduta in seduta fino a debellare errate convinzioni e pensieri disfunzionali. Altre valide terapie sono quelle di rilassamento muscolare progressivo o la mindfulness (17).

La salute mentale negli orfani di guerra e da COVID

Il ruolo del rapporto fra genitori e figli nello scatenamento della depressione è stato molto studiato e alcuni lavori hanno verificato quanto incida la mancanza anche solo transitoria di una figura genitoriale. Uno studio del 2011 della California University, tornato attuale con la guerra in Ucraina, ha studiato i figli dei combattenti in Iraq e Afganistan (18) evidenziando una proporzionalità diretta fra durata della permanenza al fronte dei padri e comparsa di disturbi mentali nei figli, in particolare: disturbi depressivi, reazione a grave stress e disturbi dell’adattamento e turbe comportamentali pediatriche. Fu realizzato con un dataset elettronico di 4,3 milioni di registrazioni mediche di visite di base e/o specialistiche effettuate fra il primo gennaio 2003 e il 31 dicembre 2006 su 307.520 minori per il 16,7% dei quali è stata formulata almeno una diagnosi di disturbo psichiatrico con la seguente frequenza:

  • da stress (5,9%)
  • depressivo (5,6%)
  • comportamentale (4,8%)
  • ansioso (2,7%)
  • del sonno (2,4%)

Dopo aggiustamento dei dati per età, genere e familiarità la probabilità di diagnosi per malattia mentale correlava, oltre che con la durata dell’allontanamento genitoriale, anche con la maggiore età e il genere maschile del soggetto (Tabella 1).

Anche se il periodo dell’allontanamento genitoriale durava meno di 11 mesi i suoi effetti si facevano comunque sentire, sia sui maschi che sulle femmine.

Per esempio i maschi e le femmine del gruppo 13-17 anni che restavano lontani dai padri meno di 11 mesi presentavano comunque un aumento delle diagnosi per malattia mentale rispettivamente del 33,4 e del 31,3 per 1.000.

Nei casi di allontanamento più lungo e talora traumatico e/o definitivo come sta accadendo in questi giorni ai minori ucraini, secondo uno studio svedese su 10-15enni vittime dello tsunami nel Sud-est asiatico del 2004 (19) il tempo di recupero psicologico può arrivare a 9 anni residuando problemi mentali come depressione, ansia, disturbo post-traumatico da stress e abuso di sostanze (20).

Nella quotidianità situazioni di questo tipo sono più spesso conseguenza di incidenti della strada, ma durante la pandemia è stato segnalato in USA un altro fenomeno che ha investito tutto il mondo: gli orfani da COVID, adolescenti rimasti senza genitori perché entrambi morti per l’infezione da coronavirus (21). La fascia d’età più colpita va dai 10 ai 17 anni.

La morte del padre è stata più frequente di quella della madre e l’appartenenza a una famiglia più o meno abbiente, così come la perdita di uno o dell’altro genitore possono avere un effetto differente sul rischio di andare incontro a violenza fisica, psicologica e sessuale del giovane, anche se il tempo di recupero psicologico resta in ogni caso sempre lungo.

La durata di esposizione allo stress come fattore prognostico negativo

La differenza fra gravità dell’esposizione a un grave stress acuto e improvviso e quella di una lunga esposizione a uno stress cronico appare correlata alla durata di quest’ultimo: stando a quanto evidenziato dal recente studio COMET (22) sulla proporzionalità fra esposizione allo stress e insorgenza di malattie mentali presentato da Andrea Fiorillo dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli al congresso SINPF 2022 la durata di esposizione all’evento stressante, in questo caso il lockdown durante la pandemia, risulta direttamente proporzionale all’aggravamento della salute mentale degli italiani.

Più è stato lungo, più danni psichici ha procurato con aumento dei disturbi ansiosi e depressivi e ciò soprattutto fra i soggetti più piccoli andati incontro subito a disturbi del sonno, notoriamente fra i primi sintomi spia delle alterazioni dell’umore.

Un precedente studio inglese (23) aveva dimostrato come i disturbi del sonno siano aumentati durante la pandemia in tutte le fasce d’età riflettendo lo stato di stress generato dall’ansia per la propria salute, per la precarietà economica, per i cambiamenti sociali e di abitudini di vita con un generale derangement dell’omeostasi morfeica.

Depressione, ansia e lockdown

Lo studio COMET ha confermato come anche in Italia i livelli di depressione siano aumentati di quasi un punto alla scala DASS (Depression, Anxiety, Stress Scale) passando da 12,1 ± 7,5 nella settimana 30 marzo-8 aprile a 13,1 ±7,4 in quella 30 aprile- 4 maggio 2020 (Tabella 2 e Figura 1).

Un incremento ancora maggiore è stato osservato per i disturbi ansiosi passati da 7,5 ± 6,7 della prima settimana a 8,5 ±7,2 della seconda con un aumento di 1,5 punti, soprattutto nelle donne rispetto agli uomini (p <0,0001).

Livelli più alti di quelli registrati in studi di riferimento cinesi (24) verosimilmente a causa della diversa risposta sanitaria dei due Paesi nelle prime fasi pandemiche: mentre la Cina ha subito instaurato un pieno lockdown come accaduto di recente a Shangai con la seconda ondata di omicron (25), in Italia si è proseguito con provvedimenti alterni che hanno finito per alimentare paure e incertezze minando la salute mentale con timori ipocondriaci (26) similmente  a quanto avvenuto con l’AIDS con il fenomeno dei cosiddetti worried well (27).

È stata soprattutto la sensazione di incontrollabilità e imprevedibilità della pandemia ad alimentare i problemi di salute mentale (28) con crescente aumento di depressione e ansia, una progressione osservata anche altrove indicando che per una generale salute mentale non appena le misure di restrizione hanno ottenuto i loro benefici effetti vanno rimosse, ovviamente con le dovute cautele.

Secondo gli specialisti del congresso SINPF 2022 questa esperienza stressante non ha indotto una resilienza duratura (29) perché dopo la prima fase pandemica con la gente che sventolava le bandiere dai balconi cantando l’inno di Mameli, c’è stato un crollo con le successive ondate e i meccanismi di coping sono stati esautorati dal timore di una nuova chiusura a cui si associava l’ansia di essere infettati o veder infettati i propri cari nella paura e nell’incertezza di varianti virali sempre nuove.

A risentire di più sono state le 40-50enni, metà delle quali sposate (52%), spesso laureate (62%) che hanno perso il lavoro (6%) o sono finite in smart working (34%) a trascorrere le giornate su internet (80%), una situazione che le cautelava solo in maniera fittizia dalla solitudine e dall’isolamento che costituiscono i due grossi gravami della condizione di lockdown che negli anziani ha procurato gravi danni (30) non solo nelle loro abitazioni spesso vuote di affetti, ma soprattutto nelle RSA rimaste a lungo inaccessibili ai familiari.

Come indicato al congresso SINPF 2022 da Giovanni Biggio dell’Università di Cagliari lo stesso è accaduto agli scolari privati dalla DAD (31) del contatto reale con l’ambiente scolastico.

Secondo uno studio che ci riporta a quello policentrico da cui siamo partiti appare alterato lo sviluppo psichico nei nati in questo ultimo biennio anche se non infettati dal virus (32).

Presentano infatti difficoltà di apprendimento e dello sviluppo non potendo usufruire di molti stimoli fondamentali come il contatto empatico con il volto della madre o degli altri per via della mascherina e del distanziamento fisico.

Bibliografia

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  3. Liu G-J et al. The 18 kDa Translocator Protein, Microglia and Neuroinflammation, Brain Pathology 2014; 24 (6): 631-53.
  4. R B Banati RB et al. PK (peripheral benzodiazepine) binding sites in the CNS indicate early and discrete brain lesions: microautoradiographic detection of [3H]PK11195 binding to activated microglia. doi:10.1023/a:1018567510105.
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Cesare Peccarisi

Giornalista scientifico, neurologo, editorialista del Corriere Salute, Responsabile Comunicazione Scientifica della Società Italiana di Neurologia (SIN)